Una metabiografia, tra racconto e intervista
a cura di Antonello Rubini
Sandro Visca è certamente uno dei più interessanti artisti italiani contemporanei che operano nella sfera del fantastico. Nasce all’Aquila il 19 settembre 1944, dove trascorre l’infanzia in una casa appena fuori le mura della città medievale manifestando da subito una spiccata sensibilità per il disegno
[«È lì che per la prima volta ho avuto la possibilità di scoprire che esisteva l’architettura di un fiore e che un aquilone, a parte il suo aspetto estetico, poteva volare solo dietro un’attenta progettazione. È stato soprattutto con il diretto contatto con la natura vissuta da vicino e con i giochi dell’infanzia che ho iniziato ad avvertire il bisogno di esternare tutto ciò che dentro di me diventava emozione. In seguito un istinto segreto mi ha sempre accompagnato verso le forme, i colori, i segni, le materie e la costruzione»].
Sensibilità che negli anni immediatamente a seguire comincia a rivelarsi un vero e proprio amore per l’arte
[«Nel 1950, durante il dopoguerra, frequentavo la seconda elementare e già ero impegnato a realizzare disegni creativi con profili evidenti di prospettiva. Questo entusiasmava la mia maestra che era appassionata di pittura e che non risparmiava mai parole di elogio per incoraggiarmi a fare meglio. Una volta ci portò a visitare una mostra di Teofilo Patini (1840-1906) allestita presso il Teatro Comunale dell’Aquila, proprio di fronte alla nostra scuola “De Amicis”. Ricordo che rimasi molto impressionato da quelle opere ispirate alla tematica della vita contadina abruzzese (solo in età adulta riuscii a capire l’eccesso di retorica declamatoria alla quale appartenevano). Allora ero appena un bambino e quei quadri così grandi, di cui spesso avevo sentito parlare in famiglia, mi sembrarono ancora più grandi di quanto lo fossero realmente. Rimasi così trasognato davanti a quei dipinti che quando fummo richiamati per tornare a scuola, per distrazione, ma anche preso dall’emozione, rimasi impalato a rimirare quelle opere soprattutto per capire come erano state dipinte e solo quando mi ritrovai immerso nel silenzio totale mi resi conto di essere rimasto solo. Nel tornare indietro, mi persi negli intricati spazi del Teatro e con un certo affanno riuscii a riguadagnare l’entrata a scuola in evidente ritardo. Per questo fui pesantemente rimproverato»].
Nel 1951, all’età di sette anni, ottiene il suo primo riconoscimento, vincendo un concorso regionale organizzato dalla scuola che frequenta
[«In quegli anni per le mie capacità grafiche fui selezionato per partecipare ad un concorso di disegno. Un concorso in tutta regola, senza libri disponibili per copiare e con i fogli regolarmente timbrati dalla commissione, era perfino proibito parlare con i concorrenti del banco accanto. Fu l’occasione per vincere il mio primo premio con un elaborato dal titolo L’usignolo. Quel successo fu una grande spinta per credere di più nei miei mezzi»].
Parallelamente a quello che produce in relazione all’attività scolastica, Visca autonomamente realizza da autodidatta i suoi primi dipinti
[«La prima scatola di colori ad olio, dopo tante insistenze, riuscii ad averla in regalo all’età di otto anni in occasione del mio compleanno. Non sapendo però come diluirli, pensai bene di usare come solvente l’olio di oliva che usava mia madre in cucina e ne risultò che quei piccoli quadretti che dipingevo su delle tavolette di compensato, non si asciugavano mai e di conseguenza non potevano essere toccati neanche dopo vari mesi a causa della pittura che restava sempre fresca»].
Terminate le scuole medie, si sente decisamente indirizzato verso una scuola d’impronta artistica ma incontra forti resistenze famigliari che vengono però superate in un secondo momento
[«L’Aquila in quegli anni era una città profondamente provinciale e nonostante capoluogo di Regione non aveva ancora una scuola di indirizzo artistico. Solo nel 1955 si istituì la Scuola Comunale d’Arte, ma non riconosciuta legalmente e di conseguenza i miei genitori non mi dettero il permesso di iscrivermi, loro volevano assolutamente che andassi a frequentare una scuola statale. Provai a convincerli a mandarmi al Liceo Artistico di Pescara, ma non ci riuscii. Così fui iscritto, contro la mia volontà, all’Istituto Tecnico per Geometri dove c’era sì un po’ di disegno, ma solo tecnico. Per fortuna dopo due anni, la Scuola Comunale d’Arte si trasformò in Scuola Statale d’Arte – sezione di Roma e riuscii a cambiare indirizzo di studi»].
Ovviamente, viste le sue attitudini, è entusiasta di frequentare una scuola del genere
[«La Scuola d’Arte mi aprì la strada per iniziare a vivere le prime esperienze in rapporto al mondo che m’interessava e soprattutto m’illuminò sui vari aspetti delle tecnologie di rappresentazione. La possibilità di applicazione delle mie idee ad ampio raggio era ormai un sogno raggiunto. Nel corso dei miei studi, soprattutto nelle materie professionali, ho partecipato sempre con vivacità ed impegno totale incuriosendomi sempre di tutto. Certo la pittura rimase una vicenda privata perché a scuola non si insegnava e quindi, per la cosa alla quale tenevo di più, sono dovuto andare avanti con i miei passi potendo contare solo sulle mie energie, oltretutto costretto a confrontarmi con una realtà aquilana piuttosto spenta»].
A settembre del 1961, appena prima di iniziare a frequentare la Scuola d’Arte, tiene la sua prima mostra personale alla Sala Eden dell’Aquila, esponendo dodici opere
[«Fu un’avventura emozionante. Allora dipingevo dei quadri figurativi realizzati però con dei materiali alternativi a quelli di uso comune. Impastavo degli smalti nitro-sintetici misti a degli stucchi per legno che poi lavoravo a spatola e incollavo degli stracci misti a pezze recuperando una figurazione soprattutto materica. Il mio intento fin dall’età di sedici anni è stato sempre quello di cercare una discorsività pittorica personale e una mia strada privata da percorrere»].
Tale mostra rappresenta sostanzialmente la sua uscita ufficiale
[«Fui recensito sulla stampa regionale suscitando curiosità e apprezzamenti lusinghieri. Ricordo soprattutto quelli di Fulvio Muzi, l’artista più autorevole della città, che nel corso della mostra disse che bisognava tenere conto delle qualità promettenti di un ragazzo così giovane. I suoi apprezzamenti, ma soprattutto i suoi consigli, mi furono di grande aiuto»];
grazie a questa occasione entra in contatto anche con i fratelli Ciarletta
[«Erano personalità che facevano parte della storia della città. Vivevano tra Roma e L’Aquila e durante il periodo invernale spesso mi ritrovavo a trascorrere insieme a loro interi pomeriggi alla Sala Eden. Nonostante fossi appena diciassettenne mi consideravano quasi alla pari e questo, nonostante mi imbarazzasse un po’, mi gratificava parecchio. Ero sempre interessato ad ascoltare i loro racconti, soprattutto quelli di Nicola che era docente universitario di Storia del Teatro e al quale piaceva dimostrare il suo sapere poliedrico, soprattutto sulla storia dell’arte moderna. Mi raccontava anche dei suoi amici di Roma, spesso di Monachesi che nelle serate romane più vivaci degli anni cinquanta lo rivoltava sottosopra e tenendolo per i piedi simulava di suonarlo come fosse un contrabbasso. E poi di Ennio Flaiano con il quale era molto amico anche Francescangelo per via della sua prestigiosa attività di costumista scenografo, per non parlare poi di tutte le storie aquilane»].
Ma negli anni d’esordio probabilmente la figura più importante per Visca è lo zio Niclo Allegri, mediante il quale acquisisce diverse conoscenze importanti
[«Era un fratello di mia madre che aveva una fabbrica di vernici industriali a Torino e in quel periodo risultava il più autorevole collezionista italiano del secondo periodo futurista. Personaggio arguto e intraprendente, aveva raccolto sul mercato quasi tutte le opere di Prampolini, Fillìa, Diulgheroff, Oriani ed altri (Oriani lo conobbi in seguito in un incontro a Roma). Le teneva segretamente nascoste in una villa a Torre Pellice dove andava in villeggiatura. Con me era sempre premuroso e in quegli anni ogni mese mi inviava un piccolo assegno per aiutarmi a sostenere le spese per dipingere. Un’estate mi invitò a Torre Pellice ed ebbi l’occasione di vedere dal vero quel suo patrimonio artistico che solo in seguito, come aveva intuito, fu rivalutato nella misura dovuta. Spesso con queste opere futuriste organizzava delle mostre ed una volta mi portò con lui a Roma per un incontro con Laura ed Enrico Crispolti, Filiberto Menna e Ferdinando Bologna con i quali doveva concertare un’esposizione alla galleria La Medusa in via del Babuino. Per me che frequentavo il secondo anno della Scuola d’Arte, conoscere quei personaggi addetti all’arte ufficiale fu importante e ricordo che con timidezza mi sottoposi ai loro giudizi. Quando visionarono alcune opere che avevo portato con me, rimasero stupiti dal fatto che le avesse realizzate un ragazzo così giovane, però dissero che proprio per la mia giovane età bisognava attendere ancora per vedere meglio gli sviluppi. Rimasi un po’ perplesso, ma allora era così, bravi o no i giovani erano visti con diffidenza, oggi è totalmente il contrario»].
Nel 1962 si tiene al Castello Spagnolo dell’Aquila la prima delle grandi rassegne internazionali d’avanguardia Alternative attuali, che comprende un omaggio ad Alberto Burri, con il quale anni dopo, come vedremo, Visca ha a che fare per una grande impresa. Naturalmente un evento di tale portata non può che sollecitare un animo non comune come quello del giovane Visca
[«L’Aquila è stata sempre una cittadina molto chiusa e nel campo delle arti visive non ha mai offerto vere possibilità operative a nessuno. L’unico e irripetibile momento felice che ebbe la città fu quando Enrico Crispolti e Antonio Bandera organizzarono la prima edizione di Alternative attuali. Per me, ma non solo, fu l’occasione per aprire gli occhi sul mondo dell’arte internazionale. Le Alternative attuali furono per tutti una grande lezione tanto che anticiparono la Biennale di Venezia che solo in seguito riconobbe il premio alla Pop Art americana»],
e lo sollecita anche in termini di spregiudicatezza, di polemica con la realtà locale via via sempre più evidenti, pervenendo nel 1966 ad essere uno degli ideatori della soprannominata “antibiennale” (Realtà figurativa d’Abruzzo), nel cui catalogo si sostiene che essa «intende estendere il concetto di democrazia anche nell’ambito delle arti figurative», cosa che si ritiene non contemplata dalla Biennale Regionale dell’Aquila; occasione in cui Remo Brindisi acquista due sue opere per il Museo di Lido di Spina
[«Dopo la prima edizione di Alternative attuali, vivevo una certa insofferenza nei confronti della situazione artistica della mia città e fui uno dei più vivaci promotori della contestazione sulla gestione della Biennale Regionale aquilana che poi da quel momento decadde. In quel periodo insieme ad un manipolo di pittori e intellettuali locali, si cercò di ricostituire un Gruppo Artisti Aquilani, ma un po’ per la “miopia” generale, un po’ per l’incoerenza dei più, ma anche per le polemiche sterili che ci furono, non si venne a capo di nulla. Iniziò da lì la mia vera disillusione con l’ambiente aquilano»].
Il 1964 lo vede prendere parte alla fondazione del “Gruppo 5”
[«Una cosa importante di quegli anni per me fu la presenza di Giuseppe Desiato, mio insegnante di figura disegnata. Artista sensibile, aggressivo e di rottura fu un riferimento importante per il mio lavoro e nonostante fossi suo allievo, mi inserì nel costituendo “Gruppo 5” da lui ideato creandosi perfino delle controversie con la direzione della scuola. Facevamo parte del gruppo io, Desiato, Giuseppe Pappa, Ennio Di Vincenzo e Marcello Mariani. L’intento era quello di rimuovere l’immobilismo e la miopia di una città spenta proponendoci con delle opere riformiste dai contenuti espressivi alquanto forti»],
e in ciò che scrive nel catalogo dei cinque Visca già dimostra di avere sul piano della ricerca le idee alquanto chiare: «Amo “il segno a strappo e quello sepolto dalle successive stratificazioni di carte” perché lasciano “una suggestione sottintesa nello spazio”, e questa suggestione, appunto, si realizza solo nella tela e tramite la tela». In questo periodo è impegnato nella realizzazione di opere implicanti sovente materiali di recupero, venate di drammaticità
[«Per un fatto generazionale l’informale l’ho vissuto con qualche anno di ritardo, però mi tornò lo stesso utile per riproporre una sorta di figurazione materica. Nei primi anni sessanta avvertii la necessità di sottolineare gli inizi di una frantumazione della realtà che pian piano si andava delineando. Nacque così il periodo delle tematiche sulle Tragedie e sulle Crocifissioni attraverso le quali tendevo ad evidenziare con forza il dramma esistenziale dell’uomo»].
Quadri in una certa misura allarmanti dal punto di vista della riflessione sociale
[«Erano opere fortemente materiche realizzate nei tempi che precedevano la contestazione forte degli anni settanta e attraverso questo lavoro il tentativo era quello di mettere in evidenza il sistema del mondo che sempre più andava accelerando. Infatti in quegli anni iniziò a lievitare un’economia che avanzando freneticamente ci portò al boom economico. Certi aspetti di quel periodo assolutamente non mi convincevano per nulla e già intravedevo che il sistema che si andava profilando non era certo uno dei più consoni per un vivere civile»];
con i quali tiene nel novembre dello stesso anno la sua seconda personale al Salone del Grand Hotel et du Parc dell’Aquila. La mostra è presentata in catalogo dal giovane Emidio Di Carlo, il quale in un articolo su “Il Messaggero” sintetizza che «il pittore muove sotto la spinta dei più scottanti problemi che gli giungono dalla cronaca, che viene sentita e rielaborata, perchè possa nuovamente presentarsi su una linea poetica vicina alla sensibilità dell’artista».
Successivamente si trasferisce a Roma, giacché all’Aquila viene persino osteggiato
[«Dopo qualche tempo, sfumate le polemiche dell’antibiennale e forse per tenermi buono, fui contattato perché partecipassi a una edizione di Alternative attuali. Crispolti venne a trovarmi a l’Aquila nel mio studio in via Tre Spighe per scegliere le opere da esporre, ma dopo qualche giorno mi scrisse una lettera nella quale mi diceva, dispiaciuto, che non avrebbe potuto più estendermi l’invito, almeno per quella edizione, per un diniego degli organizzatori. Date le mie precedenti contestazioni non ne rimasi sorpreso, ma mi sentii ancora profondamente tradito dalla città e così decisi di chiudere definitivamente con L’Aquila per andare a vivere a Roma»],
anche se poi Roma, dopo un po’ di tempo, gli si rivela una città poco disposta a promuovere quegli artisti che agiscono in piena trasparenza
[«A Roma in quegli anni si viveva un momento di straordinaria bellezza, ma si svelò una grande provincia borghese dove, se si voleva raggiungere qualche obiettivo, bisognava passare attraverso certi salotti “buoni”. Lì non ho mai ceduto le armi, non per moralità o provincialismo, ma perché quel tipo di transito non faceva parte del mio modo di essere»].
Dopo qualche anno, a causa di questo, decide di trasferirsi a Milano, dove al contrario ottiene presto considerevoli risultati
[«In principio iniziai a frequentare Milano a fasi alterne e mi si aprirono subito delle porte, dei contatti interessanti, insomma riuscii ad entrare presto nelle pieghe favorevoli del mondo dell’arte. Infatti, dopo qualche tempo ebbi anche l’opportunità di firmare un contratto triennale con una galleria»],
ma dopo appena un anno si accorge che la situazione in cui opera può rivelarsi in termini di ricerca un’arma a doppio taglio e, rivalutando l’invito di Giuseppe Misticoni (con cui stringe rapporti durante la prestigiosa mostra Proposte Uno di Avezzano, del 1967, nella quale Visca espone) di andare ad insegnare nel Liceo Artistico da lui diretto, decide con coraggio di abbandonare tutto e di trasferirsi a Pescara
[«Con molta determinazione e senza nessuna remora, dopo un anno ruppi quel contratto che ogni mese mi rendeva economia sicura e in un momento di profonda indecisione su cosa fare della mia vita, mi ricordai di Giuseppe Misticoni che già dai primi tempi che vivevo a Roma mi chiamava insistentemente perchè andassi ad insegnare presso il suo Liceo Artistico di Pescara. L’insegnamento non era stato mai nei miei programmi ma in quel momento, determinato a voler riguadagnare una mia totale libertà operativa lontano dai meccanismi del potere del mercato e della critica, pur sapendo di andare incontro a una realtà certamente non facile, decisi di trasferirmi a Pescara per allontanarmi definitivamente dalla centralità. A Pescara mi confortò l’accoglienza affettuosa di Misticoni, ma anche quella di Alfredo Del Greco, Elio Di Blasio e tanti altri»].
È il 1968
[«Era in pieno svolgimento il momento caldo della contestazione. Il mondo evidenziava gravi lacune. La società occidentale dimostrava evidenti scompensi d’impostazione del sistema e il tipo di contestazione in atto non aveva più la forza adeguata per sovvertire nulla. In quel momento a mio avviso non aveva più senso alzare solo i cartelli dei no, bisognava invece proporre progetti alternativi contrastando il sistema dall’interno. Ormai si era al punto che tutto ciò che non funzionava era così evidente che si autodenunciava da solo. Bisognava quindi fare delle scelte e di fronte a quel panorama, pur nella lucidità che con l’arte non si sono mai fatte le rivoluzioni, decisi fermamente di allontanarmi dal sistema del potere per iniziare a lottare fuori dai binari delle mode che già iniziavano ad essere il viatico per sostenere i mercati dell’arte. Anche nella scuola, mentre montava sempre più il fermento della contestazione, remavo al contrario. Nelle università si elargivano voti politici di gruppo io invece, applicando sistemi d’insegnamento relativi ai “giochi di simulazione”, lottavo con fermezza per accrescere le capacità individuali dei miei studenti, ma sempre nel rispetto della loro intelligenza e della libertà delle loro possibilità operative. Ero convinto che per rivaleggiare contro un apparato ormai così forte e cristallizzato, l’unica arma possibile era l’accrescimento del proprio sapere e riuscire a fare qualsiasi cosa ai massimi livelli di capacità per poter contrapporre fondate proposte alternative. Anche per questo nel mio lavoro, non perdendomi mai tra le pieghe delle mode dell’arte, ho sempre profuso un impegno totale per cercare un linguaggio personale non curandomi degli accadimenti circostanti e ho lavorato al massimo per tentare di focalizzare un alfabeto consono al mio modo di essere. In parte penso di esserci riuscito, non è certo un grosso successo, ma trovo positivo da parte mia l’etica con la quale ho intrapreso la mia avventura d’artista. Più che altro penso che il merito sia stato quello di aver intrapreso questo percorso con umiltà e con modestia aspirando sempre a capire un po’ di più di quanto capito un attimo prima e svolgendo il mio lavoro costantemente nella certezza del dubbio, ma soprattutto lontano dai luccichii del successo. Sono stato sempre convinto che il ruolo dell’artista non può essere quello di un virtuoso alla ricerca della gloria economica, ma quello di un individuo che si interessa dal vivo e attraverso il proprio immaginario, dei problemi che riguardano il mondo»].
È il 1968, appunto, e Visca a Pescara in sostanza traccia un solco con il lavoro precedente, pur riprendendone i principi pungenti di fondo ed alcuni stilemi, approdando convintamente ad un linguaggio d’impronta magico-onirica che porta avanti fino ad oggi, venandolo anche di indiretti riferimenti al proprio territorio
[«Tornato a vivere in Abruzzo persi tutte le possibilità di inserimento dentro gli spazi del potere decisionale, ma guadagnai di riappartenere alla mia terra ricca di stratificazioni storico-culturali molto complesse dalle quali in seguito ho potuto trarre anche alcuni stimoli e motivazioni per la mia ricerca. Certo Pescara fu una scelta molto sofferta e difficile perché mi allontanò da tante situazioni appetibili e da economia sicura, ma d’altra parte andavo dicendo da sempre che un suicidio si poteva mettere in atto solo dal nono piano e non da cinquanta centimetri di altezza come cercava di convincerci il mondo. Dopo un volo dal nono piano sei sicuro di morire, da cinquanta centimetri di altezza, nella peggiore delle ipotesi, può accadere di ritrovarti claudicante per tutta la vita. Questo l’ho trovavo sempre troppo triste, non mi è mai appartenuto»].
Una delle prime persone che conosce a Pescara è Antonio Bandera, che, come abbiamo visto, è uno dei curatori delle edizioni di Alternative attuali
[«Ormai da tempo, dopo un periodo di militanza ufficiale nel campo dell’arte, Bandera era impegnato solo a svolgere l’attività di giornalista del terzo programma culturale della Rai. Viveva a Roma e ogni anno, nel periodo estivo, veniva a trascorrere alcuni mesi di vacanze a Pescara. Durante i suoi soggiorni iniziò tra noi un’assidua frequentazione e di solito la sera andavamo a sederci al Lido, sul lungomare, insieme all’amico Alfredo Del Greco (autorevole artista degli anni sessanta) tirando le nottate fino all’alba per parlare dei problemi dell’arte e del mondo. Del mio lavoro e di quello di Del Greco aveva una grande considerazione e nonostante lontano dalla pratica delle arti visive, era sempre preso a dispensarci attenzioni e consigli positivi. Con lui mi convinsi, più di quanto già lo fossi, che la scelta di aver lasciato la centralità per la periferia era stata una cosa giusta. Spesso dietro le sue rumorose risate mi diceva che ero un vero “pazzoide”, ma che avevo fatto bene in quel momento a prendere le mie decisioni»].
Nel 1969 il Teatro Stabile dell’Aquila gli affida un incarico molto impegnativo: la realizzazione delle scenografie di Alberto Burri per L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone, la cui regia è di Valerio Zurlini
[«Fui contattato dal T.S.A. perché in Italia nessun laboratorio scenotecnico era disponibile alla realizzazione di quelle scene. Si trattava di due combustioni di plastica, una bianca e l’altra rossa e di un sacco. Bisognava realizzare tre fondali di dieci metri di base per sette metri e mezzo di altezza in rapporto a tre piccoli bozzetti di Burri. Le due combustioni le andai a fare a Milano dove il Teatro mi aveva riservato un vasto spazio presso un padiglione della Fiera. Per mantenere l’impegno preso riuscii a concretizzare il lavoro non dormendo per quindici giorni di seguito e lavorando ininterrottamente giorno e notte, allora avevo venticinque anni e tutto era possibile. Il grande sacco invece andai a realizzarlo all’Aquila presso il Teatro Comunale. Burri lo incontrai a San Miniato perché la prima estiva dello spettacolo era prevista nella piccola piazza della città. Ricordo che ci fu un momento in cui si creò una certa tensione a causa di una pioggia insistente che non permetteva di montare le scene all’aperto e così dovemmo aspettare due giorni perché spiovesse. Nel frattempo Burri mi interrogava, voleva sapere come avevo realizzato il lavoro e mi chiedeva dei materiali usati. Mentre gli spiegavo che le combustioni erano state fatte in parte con il bruciatore e in parte pittoricamente, dimostrava con la sua mimica una certa apprensione e mi sottolineava con voce preoccupata che avrei dovuto usare al posto delle vernici nitrosintetiche altri colori che adoperava per le sue opere. Non fu facile fargli capire le mie scelte tecniche e che quei fondali così grandi sarebbero stati letti come minimo da venti metri di distanza. Confesso però che un po’ ansioso lo ero anch’io, soprattutto perché le opere montate in verticale non le avevo potute ancora visionare, ma in fondo ero fiducioso. Finalmente smise di piovere e a notte inoltrata Zurlini mi chiese di far montare le scene. Burri con la sua inseparabile Nikon al collo andò a sedersi all’ultima fila della platea. Sotto il palcoscenico c’era Zurlini con Giancarlo Giannini, Gianni Santuccio, il musicista Zafred e il resto della compagnia. Raggiunsi Burri e quando la combustione rossa fu issata sul fondale del palcoscenico, la piazza risuonò in un fragoroso applauso da parte di tutti. Burri allora si portò sotto il palco e schermendosi disse che più che a lui l’applauso l’avrebbero dovuto rivolgere all’esecutore, poi insieme a Zurlini si complimentò con me dichiarandomi tutta la sua soddisfazione»].
Grazie a questa esperienza si stabilisce con Burri un rapporto al di là dell’ambito professionale che li fa incontrare più volte, discutendo anche del lavoro di Visca
[«L’amicizia con Burri iniziò a San Miniato e nel tempo si concretizzò sempre di più anche per la passione che avevamo per la caccia. La prima volta che fui invitato a trascorrere una settimana nella sua casa-studio, sopra Casenove di Mucignano in Umbria, conobbi un altro Burri. Diverso dal quel personaggio misantropo di cui tutti parlavano. Con me fu molto aperto e nei pomeriggi di riposo, dopo il rientro da lunghe battute di caccia, mi raccontava con passione del periodo della sua prigionia nel campo di Hereford in Texas, dei suoi primi dipinti e delle difficoltà che aveva trovato in campo di concentramento a reperire i primi colori, specialmente i rossi. Mi raccontò anche, con una certa rabbia, di tutti gli sforzi e dell’impegno profuso nelle ricerche del fratello disperso sul Don, in Russia, ma soprattutto parlammo di pittura, dei suoi amici Colla, Ballocco e Capogrossi con i quali firmò il manifesto del « Gruppo origine » e anche del mio lavoro. Era il periodo delle “pupazze” e devo dire che rimase abbastanza sorpreso da quelle mie grandi sculture di pezza. Dopo lunghe e articolate considerazioni sull’arte alla fine concluse dicendomi che la cosa più importante per un artista è seguire solo il proprio istinto fregandosene di tutto e di tutti»].
Con il Teatro Stabile Visca continua a collaborare per qualche anno con soggiorni assidui all’Aquila, venendo a contatto con molte delle personalità artistiche che per vari motivi in tali anni frequentano la città
[«In quel periodo era facile ritrovarmi insieme alla Compagnia del Living Theatre di New York, con Stockhausen e Bruno Canino, con Carmelo Bene e Gino Marotta, Piera Degli Esposti, Vittorio Gasman, Andrea Cascella e il giovane Gigi Proietti. La città viveva una stagione irripetibile di vera vivacità culturale ed era luogo di frequentazioni eccellenti continue grazie al T.S.A., alla Società Aquilana dei concerti e all’Accademia di Belle Arti diretta allora da Piero Sadun. Una sera, all’inaugurazione di una mia mostra personale allo Scalco delle Tre Marie di Paolo Scipioni (1974) dove quasi tutte le sere ci riunivamo, Carmelo Bene dietro un sorrisetto abbindolante mi disse: questa sera ti farò assistere al mio spettacolo in scena con me!? Nonostante la consumata amicizia che ci legava, pensai fosse una delle sue solite provocazioni, ma la sera stessa mi ritrovai veramente in palcoscenico con lui immerso nella scenografia di Gino Marotta a vivermi dal vero, come fossi un attore, Nostra Signora dei Turchi. In quegli anni penso di aver vissuto all’Aquila privilegi straordinariamente irripetibili. Peccato che finì tutto molto presto»].
A questo periodo appartengono le “pupazze”, curiose figure tridimensionali di grandi dimensioni rivestite di stoffa (da questo momento la macchina da cucire diventa per lui uno strumento più che importante), in cui «vi è, nel fondo, una certa irrisione della realtà, smorzata dalla tristezza dei pupazzi veri, autentici Golem svitalizzati o sagome afflosciate in un museo delle cere non refrigerato a sufficienza» (Benito Sablone).
Discorso argutamente metaforico che mette in relazione l’uomo interno con l’uomo esterno, che nei primi anni settanta affronta a livello maggiormente bidimensionale, alternando la commistione di vari materiali all’uso esclusivo della pittura.
Nel 1971 per due anni è insegnante di Figura disegnata di Andrea Pazienza, con il quale mantiene un rapporto di profonda amicizia fino alla sua tragica scomparsa avvenuta nel 1988. Nel 2006 la casa editrice Fandango edita il libro Andrea Pazienza Visca, relativo alla vasta produzione di Pazienza incentrata su Visca, nel quale quest’ultimo dichiara: «Nel tempo mi sono quasi sempre ritrovato “vittima” nelle sue graffianti caricature e nello svolgimento delle storie sarcastiche che inventava su di me. Confesso però che ne sono stato sempre un po’ gratificato, anche perché gran parte dei disegni pubblicati in questo libro sono stati realizzati durante le mie lezioni o nel mio studio». E in una bandella della copertina del medesimo libro è scritto: «I folti baffi neri, lo sguardo stralunato e la chioma fluente, vittima più che protagonista di imprese surreali, Visca si ritrova improvvisamente catapultato nell’immaginario del giovane Paz. La comicità dissacrante, la precoce maturità del segno e la sperimentazione linguistica fanno rientrare Visca a pieno titolo tra i personaggi principali dello straordinario universo di Andrea Pazienza».
È il 1973 quando incontra Gino Marotta, che all’epoca passa la maggior parte del suo tempo all’Aquila dove insegna all’Accademia di Belle Arti, avendo come studio la chiesa sconsacrata di San Filippo. La conoscenza avviene tramite amici comuni che li mettono in contatto poiché quell’anno entrambi vengono invitati alla Triennale di Milano. Visca nella sezione Lo spazio vuoto dell’habitat curata da Eduardo Vittoria
[«Gino in quel momento stava realizzando il Paradiso artificiale per i giardini della Triennale, mentre io a Pescara mi adoperavo a costruire una struttura polimaterica di sei metri di base per il Padiglione Italiano. Fuori ai giardini insieme a Marotta c’era De Chirico con la ricostruzione dei suoi Bagni misteriosi, lo ricordo seduto nel bel mezzo della sua opera come fosse stato una sua scultura, e poi Burri con il Teatro continuo che all’inaugurazione mi salutò velocemente e scappò via, e ancora Hundertwasser che avevo conosciuto come artista in una edizione delle Alternative attuali dell’Aquila, Sebastian Matta con l’opera Autopocalipse. Insomma quella del 1973 fu una delle più interessanti edizioni della Triennale. Quando Gino Marotta seppe del mio invito, mi esortò a trasferire la mia opera da Pescara all’Aquila nella chiesa di San Filippo per poterla spedire insieme alle sue sculture a Milano. Infatti la mia struttura fu caricata insieme al Paradiso artificiale su un grande camion che con rinoceronti, giraffe, fenicotteri e coccodrilli di metacrilato rosa, prese l’aspetto di un’immaginaria Arca di Noè e guarda caso partimmo insieme per Milano sotto un diluvio torrenziale. Da quel momento nacque tra noi un’amicizia vera che sostenuta da una stima professionale reciproca, ci ha accompagnato fino ad oggi anche oltre la nostra storia di artisti»].
Infatti più volte Marotta lo segue nelle escursioni in montagna
[«Con me Gino scoprì la montagna e nonostante i suoi timori, riuscì a tenermi dietro dovunque. Sul Gran Sasso in cima a Corno Grande, in difficoltose traversate di alta quota, nello sci da fondo e anche in duri soggiorni al rifugio di Forca Resuni nel Parco Nazionale d’Abruzzo. Fin da ragazzo sono stato un fervente frequentatore delle mie montagne perché oltre a vivere il piacere della scoperta dei luoghi che attraversavo, riuscivo ad eludere il trambusto del quotidiano e immergermi nel rumore del silenzio. Il rapporto con la montagna mi è stato utile soprattutto per diventare più introspettivo in me stesso, per abbattere alcuni timori reconditi e anche per rimuovere alcune incertezze nascoste»].
Una passione, questa, per la quale Visca nel 1975 realizza la singolare operazione performativa Un cuore rosso sul Gran Sasso
[«Nel 1970, inerpicandomi sulle cime più alte, si accese nel mio immaginario l’idea di Un Cuore Rosso sul Gran Sasso. Un’opera cinetica che ideai come tentativo di segnare un luogo quasi a protezione di se stesso. Il film fu girato nel 1975 in pellicola a sedici millimetri per la promozione della Scuola di Cultura Drammatica dell’Aquila e la collaborazione tecnica del Teatro Stabile. Devo però la realizzazione di questa impresa soprattutto ad un gruppo di amici scapigliati, che insieme ad alcuni noti scalatori aquilani, riuscirono a trasportare il grande cuore rosso (m. 4x2x1) attraverso Campo Imperatore per poi issarlo sulle pareti rocciose del Gran Sasso. L’azione non fu facile, anzi, in alcuni momenti si rivelò piuttosto pericolosa e le varie difficoltà tecniche incontrate durante tutto il percorso, misero continuamente a dura prova l’operatore Fausto Giaccone e tutto lo staff tecnico. Si riuscì a portare a compimento il film per le capacità organizzative di Federico Fiorenza (oggi Direttore del Teatro Stabile dellAquila) e soprattutto per la forte determinazione di tutto il gruppo operativo che non si arrese mai davanti alle avversità ambientali, in alcuni casi molto rischiose»].
Le motivazioni intrinseche vengono spiegate brevemente dall’artista a Rita Centofanti in un’intervista del 1986: «la sceneggiatura è impostata sul recupero del senso alchemico della formula magica (cioè, una cosa, più una cosa, più una cosa, può dare un’altra cosa, un risultato). Parto proprio dall’elemento alchemico della formula magica e da lì costruisco l’azione. In questo caso in rapporto ad una serie di complesse riflessioni sul territorio. Ed ecco, allora, gli ingredienti: le fascette rosse, il lento e faticoso camminamento, il cuore che sale, che rimane tre giorni e tre notti alle intemperie, la ridiscesa a valle e l’abbandono senza mai voltarsi indietro. In fondo si tratta di un’azione senza un’apparente conclusione e che non propone una soluzione. Il tentativo è quello di impaginare un impianto mentale aperto (in questo caso mediante un effetto cinetico) difronte al quale ognuno può elaborare, certamente dietro un mio preciso “disegno”, il contenuto misterioso dell’opera attraverso un proprio pensiero e una propria analisi».
Nel 1974 Visca realizza il suo primo arazzo cucito, con intenzioni di maggiore squisitezza poetica, scelta operativa che da quel momento ricorre spesso nel suo fare, e nel decennio a venire, esattamente nel 1986, tiene una personale di soli arazzi all’Aquila
[«Il primo arazzo cucito lo realizzai nel 1974 e lo esposi lo stesso anno a Pescara in una mostra personale al Laboratorio Comune d’Arte “Convergenze”, di cui facevo parte, diretto da Giuseppe D’Emilio. Da quella prima esperienza decisi di dedicarmi anche a quel tipo di lavoro e nell’arco di una decina di anni, data la laboriosità esecutiva, riuscii a eseguirne quasi una ventina di grandi e medie dimensioni senza però mai esporli. La casa editrice del Gallo Cedrone, interessata a questo lavoro, dispose di pubblicarli in un’elegante monografia, Cuciti, con i testi di Enrico Crispolti e Tito Spini e per l’occasione fu promossa una mostra al Forte Spagnolo dell’Aquila»].
Crispolti nel suo scritto puntualizza, a scanso di equivoci, che «Sono in realtà veri e propri quadri di stoffa, e certo non deduzioni decorative». Questione che investe spesso Visca, ma di cui ha ormai un’opinione precisa
[«Non credo che al mio lavoro appartengano aspetti decorativi che di tanto in tanto qualcuno rileva. Capisco che a volte il mio eccedere nel sommare il dettaglio sembra scadere nel decoro, ma se si è più attenti a valutare il rimando dei materiali che uso, si può notare che la mia intenzione, anche nel cifrare evidenti manufatti kitsch, è quella di innestare punte acuminate di sarcasmo e di ironia miste in alcuni casi anche alla metafora dello sberleffo e alla cattiveria del risibile. Il tentativo è quello di ficcare nelle mie opere qualcosa di smielato e stupido come risultano certi aspetti tristi della vita. In fondo è un’operazione che tende alla trasmutazione del quotidiano dove gli oggetti e le situazioni, filtrati attraverso una palese ironia, vengono riproposti per metafora in segni, simulacri e feticci. Certo quando la pittografia dei materiali che adopero si presenta più forzata del solito è facile equivocare le intenzioni, ma la mia “ginnastica” è stata sempre tesa a punteggiare una scrittura costantemente in bilico tra l’allusione e il rilievo oggettivo delle cose in rapporto alla realtà del mondo. È un problema con il quale mi misuro da sempre, fin dal periodo delle prime sculture di pezza. Le sfide con me stesso le ho sempre portate avanti per capire fino a quanto è possibile volteggiare su un trapezio senza avere sotto una rete di protezione. Nel mio lavoro avrei potuto sicuramente intraprendere una strada meno rischiosa allineandomi alla convenienza delle mode, vivere più tranquillamente e affrontare meno fatiche, ma le cose facili non mi hanno mai appagato, perfino quando da giovane frequentavo, rischiando, le dure realtà sassose del Gran Sasso»].
Il 1978 è un anno particolare per Visca, in quanto organizza una spedizione in Sud America che interiormente lo arricchisce molto
[«Ho avuto fin da ragazzo un’attrazione istintiva per il Sud America e in particolar modo per il Perù. Non so dire esattamente perché, forse per la cultura latina che mi appartiene, forse per aver percepito, dopo tante letture, varie analogie in rapporto alla mia terra o forse per la sempre sognata Cordigliera delle Ande. Per anni avevo coltivato il desiderio di visitare quelle terre lontane fino a quando nel 1978, raccolte tutte le mie energie, decisi di avventurarmi in quei territori così agognati. Per un anno, prima di partire, cercai di accrescere il più possibile la mia conoscenza sul Perù e su i suoi vari profili: quello socio-economico, storico-politico, etnico-antropologico e ambientale. Poi pianificai la spedizione in tutti gli aspetti tecnici: attrezzature, abbigliamento, materiale fotografico, mappe per gli spostamenti, studio dei percorsi. Non fu facile organizzare il tutto, anche perché in quel periodo al Consolato Peruviano non riuscii a trovare conforto da parte di nessuno. Mi salvai però con l’Istituto Italo Latino Americano di Roma. Il presidente Carlos Fernandez Sessarego si rivelò da buon peruviano una persona affabile e cortese e rimase profondamente gratificato dal mio vero interesse per il suo paese. Dopo avermi dato preziosi consigli, mi fece fotocopiare delle mappe militari che in seguito mi tornarono molto utili. Attraversai il Perù per alcuni mesi con i mezzi più disparati e avventurosi, spesso su cassoni di camioncini sgangherati insieme agli indios i loro animali e le loro mercanzie, percorrendo carrettere sterrate costeggianti burroni da brivido. Molte volte a piedi scavalcando montagne di oltre quattromila metri, o con veicoli di fortuna alquanto fatiscenti. L’unico mezzo relativamente confortevole fu il treno che dal Dipartimento di Cuzco porta a Puno sul lago Titicaca attraversando le Ande a cinquemila metri di altezza, la ferrovia più alta del mondo. La mia esperienza peruviana si rivelò profondamente toccante e si concluse felicemente (grazie anche alla preziosa collaborazione del livornese Giancarlo Papini che mi seguì lungo tutto il viaggio) dopo aver risalito da Iquitos un tratto del Rio delle Amazzoni, nella foresta amazzonica peruviana. In quei luoghi, un anno dopo il regista Werner Herzog realizzò il suo film-capolavoro Fitzcarraldo. Aver vissuto in rapporto diretto con le problematiche del paese, dei campesinos e degli indios e dopo aver toccato con mano le precarie condizioni socio economiche di quei territori, mi resi conto di quanto Che Guevara fosse stato un grande poeta e non certamente un grande rivoluzionario. Abbandonato da Castro e dal PCI boliviano, la speranza di trovare consenso politico e aiuto per una rivoluzione armata da parte di un popolo rassegnato a vivere nella misura di una realtà rarefatta, era certo poco probabile. Attraversando il Perù mi resi conto per la prima volta di quanto la cultura occidentale sia responsabile nell’aver determinato una sperequazione tragica e penosa tra continenti e di quanto avesse avuto però ragione Che Guevara nel suo tentativo di guerriglia, purtroppo con risultati che disattesero tragicamente il suo pronostico. Questo viaggio rafforzò le mie idee ancora più di quanto pensavo alla fine degli anni sessanta, in pratica che la società occidentale avrebbe dovuto recedere dalla strada intrapresa per riflettere sulle problematiche sociali evitando di eludere la rispettabilità del vivere a buona parte del mondo. L’esperienza di questa avventura cementò ancora di più la posizione politica nei confronti del mio lavoro e soprattutto le mie scelte. Non ho mai pensato che il mondo dovesse fermarsi, il mondo ha diritto ad andare avanti come è sempre stato, ma evitando di cancellare la dignità di noi stessi. Questo sarebbe potuto accadere se al termine dell’ultimo conflitto mondiale avessimo avuto un’etica morale per guardare indietro e capire dove stralciare i codici veri con i quali cifrare i meccanismi per una nuova piattaforma sulla quale rifondare la nostra esistenza. In seguito altri avventurosi viaggi in Venezuela, dove per migliaia di chilometri ho attraversato in jeep la Gran Sabana da Canaima a Roraima fino ad arrivare in Brasile, la ricognizione di quasi tutte le oasi del deserto Tunisino e altri impegnativi viaggi in territori lontani, mi hanno aiutato a comprendere quante serie responsabilità abbiamo nei confronti del mondo. Dal viaggio in Perù riportai quasi quattromila fotogrammi dei quali venne a conoscenza, tramite un amico comune, l’etnologo-archeologo americano Victor Von Hagen con alle spalle anni di soggiorno in Sud America sulle tracce degli Incas. Personaggio alla Hemingway viveva sul lago di Bracciano e quando si trovò difronte al mio materiale fotografico mi propose di realizzare un libro insieme a lui. Accettai subito con entusiasmo, ma a causa della scarsa tecnologia di quegli anni e alle mie lungaggini dovute ad obblighi di lavoro, dopo due anni dall’impegno preso purtroppo Von Hagen venne a mancare e il libro che avevo impaginato con tanta cura, non fu mai dato alle stampe»].
Negli anni novanta e in quest’esordio del duemila opera con intenzioni più marcatamente oggettuali, con frequenti incursioni nella scultura, realizzando pure delle ambientazioni. Una di queste è Il grande firmamento, esposto all’Ex Gaslini di Pescara nel 1995
[«Carlo Lizza, allora Presidente dell’E.M.P., mi dette l’incarico di realizzare un’opera da inserire nel programma delle manifestazioni estive pescaresi sollecitandomi però ad eseguire qualcosa di contenuto spiazzante. Un’idea per un’opera del genere l’avevo già nei miei appunti e così, dopo alcuni studi e accorgimenti, definii il progetto per Il grande firmamento. In quel frangente fu stimolante una visita al mio studio di Ruggero Pierantoni con il quale ebbi la possibilità di valutare le mie scelte progettuali e travasare scambi di opinioni. L’opera consisteva nella realizzazione di un grande ambiente di dieci metri per dieci di base per dieci metri di altezza preceduta da un ingresso, antistante la stanza, di misure più piccole. In seguito però per motivi economici fu necessario ridurre le misure. Il tentativo era quello di disorientare il visitatore facendolo entrare all’interno della grande scatola nera totalmente abbuiata e costringerlo, attraverso una serie di accorgimenti atti allo spiazzamento sensoriale, a rivolgere lo sguardo in alto per guardare l’unica cosa visibile, un cielo stellato. Il cielo nel buio della stanza si evidenziava solo perché dipinto con tempere fluorescenti e illuminato da luce nera (lampade di wood). La sensazione di chi entrava, rimanendo prigioniero del buio, era solo di forte incertezza. Lasciare un ambiente illuminato e immergersi nel buio totale smarrendo la percezione dello spazio e perdere anche il senso dell’equilibrio a causa del pavimento inclinato di vari gradi, per il fruitore gioco forza nasceva immediata la necessità di cercare l’orientamento e trovare un punto di riferimento per non perdersi. In questa situazione l’unico appiglio rimaneva il cielo. All’interno della grande stanza buia un’ulteriore forza suggestiva era esercitata da musiche disarticolate di Karlheinz Stockhausen e Krzysztof Penderecki, che quasi disegnavano i punti luminosi del cielo. Disposti tutti questi elementi, la scommessa era quella di ricondurre il visitatore, attraverso una serie di imprevedibilità, ad alzare lo sguardo in aria e riflettere quanto precaria, incerta e piccola può essere la realtà che viviamo»].
Il 1995 e il 1996 lo vedono impegnato nella realizzazione di due ampie antologiche, a Camerino, presso il Palazzo Ducale, e all’Aquila, presso il Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea; i cataloghi di entrambe sono corredati di una selezionata antologia critica. Quella di Camerino è presentata dallo studioso di neuroscienze e di psicologia cognitiva Ruggero Pierantoni, il quale acutamente annota: «i suoi percorsi, le sue mappe, i suoi testi grafici e plastici contengono momenti di scoraggiamento, tristezze improvvise, dettagli atroci e minuscoli (le “minuscole ignominie” di Borges)».
Inoltre, da vero amante della cucina, Visca nel 1999 scrive un libro su quella abruzzese riscuotendo notevole successo
[«Da appassionato ed entusiasta cuoco dilettante decisi di scrivere un libro sulla mia cucina di appartenenza, Abruzzi – L’Arte del far cucina, quasi a porre un contrafforte a quei cucinatori di consumo sostenuti solo dalla differenziazione che il mercato richiede. Dichiaro comunque con molta franchezza che la mia conoscenza in materia non intende ergersi a carattere scientifico; rivendico a mio solo merito un vero entusiasmo e una genuina passione verso, a mio avviso, questa non tanto minore forma d’arte che i molti amici per i quali cucino possono certamente testimoniare e auguro ai lettori di trarre da questo libro, lo stesso piacere che io ho provato a scriverlo e da pittore a illustrarlo»]. (Visca)
Dal novembre 1998 al dicembre 1999 realizza un arazzo cucito lungo trentaquattro metri dove in un certo senso dispiega tutto il suo immaginario cifrando la misura dell’arazzo di Bayeux
[«In itinere è stato un lavoro molto singolare soprattutto per il fatto che non avevo mai impiegato così tanto tempo ed impegno, l’arco operativo di un anno, per realizzare un’opera cucita. L’idea mi venne leggendo alcuni antichi manoscritti sui tratturi che in Abruzzo ebbero un’importanza determinante nelle loro articolazioni socio culturali e politiche. Da quelle letture capii che le antiche vie della lana iniziavano da un punto e dopo un vissuto di complicanze territoriali terminavano decisamente in un altro punto evidenziando però di non essere solo dei semplici camminamenti, ma profondi spaccati di vita. Questi antichi percorsi, contenitori di storie vissute ed enfatizzate a tutt’oggi da personaggi ancora viventi nonostante l’età avanzata, mi indussero a meditare con attenzione su una moltitudine di evidenti assonanze con la stretta misura della nostra realtà. Infatti l’arazzo In itinere inizia il suo percorso dal mistero di un cielo e dopo uno svolgimento di trentaquattro metri finisce nel mistero di un altro cielo. Il tentativo è stato quello di indicare, attraverso lo stretto tracciato affollato di accadimenti, quanto breve, precaria e misteriosa possa essere la nostra piccola esistenza, pur se raccontata nei trentaquattro metri dell’opera»].
Nell’ultimo lustro lavora sul tema dei “teatrini”, manufatti perlopiù di piccole dimensioni che «a volte ironici e sarcastici, a volte tragici, costituiscono il tentativo di indicare quanto l’attuale “paesaggio” che viviamo, per molti aspetti già in rovina, sia per svariati profili un composto gravemente instabile e insicuro» (Visca). E in merito sostengo nel catalogo dell’ultima personale ad Ofena: «Inquietanti perché dietro alla preziosità vibratile, iconica e materica, spesso vi si colgono prepotentemente precarietà e turbamento: crollano nelle composizioni i corpi architettonici, il caos s’impone e quelle così facili deduzioni gioiose perdono un po’ della loro leggerezza, le figure appaiono colte talvolta nell’istante della distruzione. Ma in tutto ciò non vi è comunque drammatizzazione, Visca però mi pare che assuma una posizione mai in passato esternata con così decisiva evidenza».
Questo per grandi linee finora il cammino di Visca, che con il senno di poi conferma e porta ad estrema maturazione le sue posizioni critiche soprattutto rispetto all’attuale sistema dell’arte
[«Dopo le mie scelte e le dure posizioni prese alla fine degli anni sessanta, le cose di cui oggi posso amareggiarmi sono poche. L’unico prezzo alto che ho pagato nel tornare in Abruzzo lontano dal mercato e dall’economia, è stato quello di aver potuto realizzare solo il cinquanta per cento della mia progettazione. Questa è una spina che mi pungerà per sempre perché nella vita di un artista la cosa più importante è concretizzare le proprie idee, tutto ciò che resta teoria non ha molta importanza. Comunque la conflittualità tra un mio essere interno e un mio vivere esterno mi ha sempre sostenuto la ragione del mio lavoro e mi ha rafforzato sempre di più nel tempo la convinzione che la “verità” non esiste, ma sarebbe disastroso non cercarla. Con serenità posso dire che oggi, dopo tanti anni di attività svolta con passione ed impegno, avvertendo ancora tanta energia mentale, mi sento come se stessi organizzando l’inizio del mio cammino. Il ruolo dell’artista sicuramente non è mai stato quello del rivoluzionario perché è certo che le rivoluzioni si fanno con le armi, però penso che sia stato sempre quello di indicare un pensiero, un’idea, una strada da percorrere, una frattura. A mio parere l’arte moderna da quando l’economia è diventata l’ago della bilancia di tutto, perfino della politica (che in nome dell’istituzione attacca quadri, li tira giù, smonta, allestisce…) a differenza di quando l’aveva avuta nei tempi passati purtroppo in gran parte ha perso quella funzione di filtro delle problematiche sociali e non ha più il ruolo di vera proposizione o di vero dissenzo. Oggi i sistemi di legittimazione dell’arte sono platealmente evidenti. Per creare il valore di un artista c’è bisogno di tre punti fissi. Un critico che teorizza il suo punto di vista, un collezionista miliardario pronto ad acquistare a cifre esorbitanti e il direttore di un museo che acclude il timbro ufficiale. Se sono disponibili questi tre passaggi è possibile far diventare importante qualsiasi cosa, poi se si è collusi con la politica si può arrivare dovunque. Attualmente il sistema dell’arte è fondato soprattutto sull’idea dello spiazzamento visuale. Ormai ne risultano quasi sempre lavori ripetitivi e noiosi che hanno la pretesa di rifarsi a quella rivoluzione nichilista di Duschamp e Dada che sicuramente in quei tempi aveva un senso, ma oggi credo che non lo abbia più. Le neo-avanguardie credono di dover stupire, io penso che non c’è più nessuno da stupire e niente di cui stupirsi. Oggi credo che le sole icone sbalorditive che possono veramente stupire sono quelle prodotte dalle televisioni internazionali che trasmettono tragici scenari di guerra rappresentati da corpi dilaniati di donne, bambini e uomini carbonizzati senza nome. L’arte dovrebbe essere un po’ più sapiente, quella vera degli artisti del ‘900, guarda caso, non passa ancora di moda. Oggi qualsiasi cosa che di colpo diventa importante, dopo qualche tempo viene esiliata nel dimenticatoio per dare spazio a nuove trovate commerciali. Negli anni sessanta la situazione dell’arte cambiò e in tutto il mondo ci fu il riconoscimento della cultura americana. Fu un cambiamento molto importante ma nello stesso tempo generò esiti che abbiamo potuto vedere dopo gli anni ottanta e novanta fino ad oggi. Un’arte che è solo un prodotto da vendere più che un prodotto artistico. Basta pensare alla storia degli espressionisti astratti americani da Pollock a Calder fino a Rothko l’ultimo che è morto. Nonostante le loro altissime quotazioni sul mercato si sono quasi tutti suicidati. Loro pensavano profondamente a una funzione diversa dell’arte, ma la loro forte resistenza all’omologazione del sistema non ebbe mai alcun esito. Oggi tanti artisti che hanno enorme successo e quotazioni milionarie producono opere per un pubblico che capisce poco e che si lascia facilmente impressionare. I mass media corteggiano questi artisti per lo shok che producono e i grandi collezionisti non acquistano più per il piacere di impossessarsi di un’opera di contenuto come accadeva una volta, ma solo per una speculazione a breve termine perché ormai le quotazioni salgono vertiginosamente in modo molto veloce. I potenti dell’arte sono catalogati da prestigiose riviste come fossero dei cavalli da corsa e sono messi in graduatoria con “pettorali numerati” o “abbattuti” come fossero “azzoppati” e non più recuperabili, per poi essere sostituiti. Di solito i comitati che dirigono queste classifiche sono composti da consulenti internazionali che si basano sul successo finanziario dell’artista, dell’evoluzione della carriera e del prestigio economico raggiunto. La maggior parte dei giovani artisti oggi sono alliniati al sistema, sono lontani da un ideale e non hanno altra finalità che quella del protagonismo e del successo economico. Io penso di appartenere ad una minoranza emarginata che non è certo proiettata in questo cono ottico e sono convinto che l’arte o è libertà o non è nulla. A mio avviso nell’arte la qualità è da cercare dentro il lavoro di un artista, non nella superficialità del successo e delle mode. Quando nel 1968 decisi di tirarmi fuori dai meccanismi del potere del mercato certo non pensavo che oggi si sarebbe arrivati a questa situazione, ma sicuramente avevo capito bene dove si dirigeva la macchina dell’arte e così decisi di uscire dal giogo dell’oppressione. I sintomi di quello che stava per accadere, nonostante i miei venticinque anni e un po’ di successo in mano, li avevo intuiti con una certa perspicacietà e se oggi potessi tornare indietro ripercorrerei sicuramente la strada intrapresa. Voglio dire agli amici e a tutti quelli che hanno frainteso il mio isolamento e le mie scelte che comunque sono un ottimista che continua a sperare sempre nelle stesse cose. Insomma mi auspico che il mondo si renda conto che siamo tutti su una piccola astronave e che conviene navigare lontano da quella falsa realtà che riesce solo a proporci la più stucchevole pagina pubblicitaria del successo. Occorre crearsi un mondo interiore e fare a meno del potere burocratico che altro non è che pura oppressione. La speranza è quella di riappropriarci di una capacità creativa adatta a vivere una realtà moderna più vicina ai valori e alle esigenze della nostra misura umana»].