QUELLO CHE M’INTERESSA NELLA PRODUZIONE DI VISCA…

Intanto, mi piace per l’invenzione figurale e per quel nitore estremo dell’esecuzione: qualità, quest’ultima, che ravviva l’invenzione quanto più la cela, facendola apparire a poco a poco all’occhio indugiante. Si tratta, infatti, di variazioni su un tema dato – ho qui, sul tavolo, le fotografie di alcune variazioni sul tema della dama di cuori -: l’invenzione, quindi, consiste nel dettaglio (una pupilla prende la forma del cuore; il colore del cuore cambia dal rosso al verde, come un semaforo stradale; i ricami d’un corsetto trovano un assetto tale, che il corsetto finisce per rassomigliare al volto della persona che l’indossa), e il dettaglio, di necessità, ambisce a farsi scoprire. Dunque, il nitore dell’esecuzione è qui la via obbligata per una scoperta lenta e furtiva. Ma, ecco, già vado dicendo ciò che m’interessa. La scoperta lenta e furtiva non è altro che il focalizzarsi dell’attenzione, la quale, come si focalizza, fa diventare il dettaglio più importante dell’intero. E proprio quello che si cerca in una variazione su tema. Vorrei dire, valendomi di una frase famosa di Picasso, che qui si fa in modo che si trovi prima ancora di cercare. Trovare, ora questo ora quel particolare, che forma il tessuto cangiante della metamorfosi: trovano senza cercarlo, in virtù d’una semplice ostinazione degli occhi. Intanto, questa matissiana dama di cuori, che a volte appare tra le lame ingigantite di un tagliasigari – sorta di ghigliottina che sta per tagliarle il collo a rocchetto -, è un oggetto: è una pupazza. (Non più pupazza, del resto, di certe donne di Picasso: ricordate quella che ha per cappellino un piatto con le stoviglie sopra?). Visca sa, da moderno, che l’uomo oggi (e per uomo – non serve dirlo – s’intende anche la donna) è «reificato», è diventato cioè mutuabile con gli oggetti che adopera. (questa mutuabilità dell’uomo con l’oggetto ha avuto il suo primo raffiguratore – mi si perdoni l’insistenza – in Picasso). Ma Visca sa pure che in antico un artista figurativo era considerato una fabbricante di oggetti, e che assai lunga è stata la sua strada per arrivare ad essere considerato – alla pari con i poeti – un imitatore (e cioè, se si rifletta, un interprete) dell’azione umana (la quale richiede sviluppo e movimento). È, dunque, sulla base di questo doppio ordine di consapevolezze, che Visca giunge a concepire (ed è chiaro che in lui confluiscono le istanze delle varie tendenze che sono in giro: pop, op e via dicendo) la pittura, che è visione (e vorrebbe esserlo di azioni umane), come teatro, che è ed è sempre stata visione (lo denuncia la parola stessa), proponendosi fin dalla sua origine di rendere presenti e visibili delle azioni umane già compiute. Talché, a un certo punto, le variazioni della pupazza di cuori diventano vere pupazze di stoffa, e, «montate» in posizioni varie e tra oggetti vari (fotoréclames, mobili e stesse loro immagini originarie), vengono fotografate ed esibile di seguito, l’una dopo l’altra. Ne può risultare un effetto caricaturale e allucinatorio, alla godard (il regista cinematografico più vicino alle origini del teatro). No, non chiamerei Bay a modello: Bay è malizioso, non teatrale. Però consiglierei a Visca di dedicare maggior cura alla scelta dei mobili (specie le sedie), che – a parer mio – devono essere verissimi quanto più veri possibile e offerti all’uso consueto, ma tanto veri appunto, da sembrare delle misteriose finzioni, mentre le pupazze – afflitte come dei saltimbanchi in riposo – crescono nel caricamento iperbolico della loro realtà.

L’Aquila, marzo 1970
Nicola Ciarletta

 


Dal gusto delle rappresentazioni lineari e sintetiche, Visca è giunto a dare un contenuto non più estetizzante alle sue «figure» che parlano, ormai, un linguaggio Maturo, ironico e complesso di cui il colore e il segno, il decorativo e il floreale (non ci si spaventi dei due termini) altro non sono che l’eccentrico alfabeto. L’evidenza della maturità dell’artista sta nel fatto che egli è riuscito a svincolarsi dalle «invenzioni», da quelle continue «trasformazioni», cioè che sono il limite di coloro (e sono tanti) che non riescono a parlare senza aver prima ascoltato altre voci, a scrivere senza aver letto una pagina d’altri, a dipingere senza aver «assorbito» – quasi sempre mentalmente le soluzioni di chi veramente opera nell’arte e ne intende senza equivoci la funzione dinamica nella civiltà. A me pare che gli emblemi di Visca, nel loro ripetersi e nel loro variare (ma nel variare non fanno che arricchirsi, diventano sempre più se stessi) siano veramente esemplari perché irridono il mondo, mettono in imbarazzo lo spettatore – altri direbbe il fruitore, ma per dei «personaggi» il termine spettatore si addice meglio -, funzionano da revulsivo nei confronti del conformismo – e del conformista – che talvolta ostenta perfino la logora etichetta dell’avanguardia borghese. La verità è che queste «pupazze» non vogliono essere prese sul serio e minacciano continuamente di ribellarsi al suo stesso creatore per la forte carica ironica che posseggono: diventano, così, anche estremamente serie e drammatiche: ma di rimbalzo, in un secondo tempo, dopo che hanno fatto tabula rasa d’ogni residuo mito estetico. Perché, in definitiva, la «pupazza» è l’anti mito che si colloca nella nicchia vuota per mostrarci che la divinità non c’è mai stata o è sostituibile, oppure è da cercare altrove, magari dietro la candida e divertita ostentazione sessuale o il freddo cuore di stagnola dorata.

Pescara, giugno 1971
Benito Sablone

 


IL METALINGUAGGIO MAGICO DI VISCA (il viaggio attraverso l’alchimia dell’uomo interno)

Se è vero che alcune ultime esperienze interdisciplinari potrebbero costituire lezioni utili per l’interpretazione del significato contestuale di un’opera d’arte figurativa, è pure vero che mancano le occasioni nelle quali metterle a disposizione per il confronto reciproco con i sistemi di verifica correnti. Perché, allora, l’opera di Visca sembra poter anche rappresentare un’occasione di questo tipo? A quali condizioni prossime future, l’opera di Visca potrebbe polarizzare l’attenzione di esperti di settori diversi? Di fatto, questa elezione dell’artista pittore e delle opere figurative a luogo privilegiato di riscoperta e sperimentazione per nuove scienze, si è già verificata una volta. Alle origini della psicoanalisi, Freud ha scoperto il mondo interno dell’uomo proprio nell’artista: fino al punto di immaginare, a sua volta, ipotetici sogni di Leonardo da interpretare poi con la psicoanalisi. Da un altrettanto ipotetico parallelismo tra le ricerche sull’evoluzione prospettiva della situazione socio-culturale contemporanea, da un lato, e le ricerche nell’arte figurativa, dall’altro, si ricava una discriminante comunque significativa. La discriminante tra pittori che, oggi, segnalano “solo” la fine di un’era socioculturale, e gli “altri”: quelli che perseguono una ricerca volta o a scoprire i modelli occulti, impliciti, del linguaggio e a tradurre in codici le esperienze da trasmettere sul futuro sistema umano; o a prevedere, per anticiparli adesso, i sistemi di esperienza e conoscenza futuri. Visca sembra essere tra questi ultimi; o, meglio, tra i primi “altri”. 2. Sarebbe fuori tema, in questa sede, costruire per l’opera di Visca un’interpretazione del suo significato contestuale (un’interpretazione ricavata dal riferimento all’evoluzione socio-culturale contemporanea ed al ruolo dell’arte figurativa). In Visca autore c’è però probabilmente l’intenzione di presentare la propria opera nello “shopping center” di oggi; quasi come se questa sua opera provenisse dall’estrema periferia di un impero la cui tecnologia verticale fosse tale da provocare ai suoi margini interni il distacco di isole neomedievali. Isole personali, cioè, nelle quali la concentrazione del semi-isolamento è in parte coatta ed in parte vocazionale. Semi-isolamento, infine, nel quale la condizione psico-culturale è in qualche senso quella di una specie particolare di parapsicologia e di magia: quelle ricavate dal ritorno autoimplosivo del più occulto subconscio “regionale” (originariamente non periferico), smosso in profondità dai sommovimenti che gli epicentri “civili” provocano nel sottosuolo collettivo. In questo senso, dunque, può essere estremamente significativo valutare anche l’opera di Visca in funzione del contesto socio-culturale dell’arte figurativa. Proprio Perché Visca appare quasi come un “barbaro” che conduce la sua conquista – la propria opera -, appunto nel centro del sisma nel quale l’opera dev’essere agita e proclamata come conquista. 3. Nella pittura contemporanea la linea d’evoluzione lungo la quale passa il “ritorno alla magia”, è quella stessa che dovrebbe forse essere chiamata della scoperta del mondo interno-uomo. Al momento in cui Freud teorizzò il “disagio della civiltà”, corrispose nella pittura la fuga dalla realtà, che condusse alcuni pittori, attraverso l’astrazione progressiva, altrove. Con Mondrian scompaiono le figure che rappresentano gli oggetti e le situazioni del mondo reale. Con De Chirico comincia l’apparizione, la scoperta delle figure del mondo interno. Da quel momento cresce l’acquisizione sul nuovo linguaggio con cui si viene rappresentando il mondo dell’inconscio individuale e delle masse: nel 1943 ormai si parla di “visione magica della vita”, e pittori come Pollock, Rothko, Tobey e gli altri dell’espressionismo astratto USA, sono consapevoli perfettamente delle origini che precedono di venticinque anni i loro temi di lavoro. 4. I1 linguaggio magico di Visca tradisce origini meno databili e più remote: quindi più sotterranee e meno autoconsapevoli. Il medium culturale di Visca è però più diretto e coerente con le proprie origini, di quanto non lo fosse la filiazione dalla cultura europea per gli espressionisti astratti USA. D’altronde l’opera di Visca impone molti rinvii “colti” al sistema di conoscenza occidentale contemporaneo. Vi si può osservare, infatti, una complessa ricomposizione di elementi, per dir così, mituali (la femmina, il corpo biologico, il sottosuolo, ecc.) con elementi rituali (la scomposizione e la composizione, la miniaturizzazione di certi segni cifrati provocata da una sorta di horror vacui, un processo di astrazione progressiva cui vengono sottoposti i singoli oggetti sin quasi alla distillazione elementare, ecc.). Dall’opera di Visca appare alla fine un nuovo modello di culto: gli oggetti rappresentati sono contemporaneamente e reciprocamente “interni” ed “esterni”. Nel mondo esposto in queste opere, la testa, il cuore, il sistema neurovegetativo, l’utero, la nuvola, il sottosuolo, il fuoco, gli ori, gli argenti, i rossi, acquistano un valore sintattico complesso che deriva loro dal processo alchemico, cioè di trasformazione del Sé profondo del ricercatore-osservatore attraverso la ricerca stessa. Jung (psicologia e alchimia); Klee, Klimt, Hundertwasser ecc.; le tecniche dadaiste del collage e dell’”assemblage”, riprese nell’ultimo dopoguerra dagli informali “materici” (es. Burri) e del “ricalco” oggettuale, anch’esso d’origine Dada, adottato sul finire degli anni cinquanta dai “popartisti” USA (Warhol): ecco gli autori e le esperienze che mi si propongono immediatamente per istituire possibili associazioni all’opera di Visca. Certo, sono citazioni superflue in una presentazione che non approfondisce la lettura dell’opera in chiave esegetica. Tuttavia, mi è sembrato lecito prospettarle come ipotesi da verificare in un’ulteriore (auspicabile) indagine conoscitiva sulla ricerca di Visca (comunque meritevole di essere seguita), che si prefigga un approfondimento adeguato dei suoi significati più complessi.

Torino, 3 gennaio 1973
Lucio Fraccacreta

 


Arte come memoria, celebrazione e recupero della vita insidiando la memoria con espedienti e operazioni che appartengono ai silenziosi riti del fare, ripetendo, per tautologie antiche onoranze e riti che si modificano e si attestano come “primari” proprio nella variante assertiva della loro epifania. Queste le prime e più resistenti approssimazioni che vengono alla mente a proposito di Sandro Visca, profondamente abruzzese e certamente aquilano. E in Abruzzo sono più evidenti e reperibili le molte influenze islamiche che hanno dato all’arte romanica codici e sostanze traslate, motivi geometrici ed araldici, partiture, morfologie astratte, mostri e chimere a stuoli. I principi che regolano le superfici e gli spazi aquilani non possono non rimandare a moschee ed edifici arabi: lo spazio cresce sopra una struttura numerica, elaborazione del quadrato, che per associazione di porzioni (quadrati), morfologicamente diversi fra loro, realizzano la tensione significante dello spazio espressivo. Ed è proprio la contaminazione dei codici astratti e chimerici ad animare l’opera di Visca. Tracce ricomposte, secondo procedimenti definiti per associazione di frazioni, per gruppi che alludono a schemi di algebristi e poligonisti orientali. Dimensione composita, su strutture ancestrali, per addizioni di episodi guadagnati dalla memoria in un teatro tragicamente ingenuo per amarissime rappresentazioni. Elevazioni di riti mnemonici le cui origini indiziano il demoniaco-angelico che è nella sostanza stessa della vita. Affiorano e si manifestano feticci e tabù e ripristini candidi di coltissimi sortilegi, di ferocissime appassionate favole paradossali: propiziatorie ricognizioni dei territori passionali di un collettivo etnico che va oltre il Gran Sasso, verso il deserto. Ipotizziamo, proprio per il senso di ricercare significati e valori più profondi e del profondo, l’operatore plastico come è, forse, un ricercatore di ideologie, di ideografie. Ma l’incantamento che attiene a questi riti è poi la ragione e la regione più vera ed inviolabile di questo fare-essendo o essere-facendo che è il lavoro di un pittore. Così il saraceno, incantatore esorcista, Sandro Visca, amaro privilegiato decifratore di arcani e lontani meccanismi del pensiero, conferisce splendore, da autentico poeta, al suo esistere.

Roma, marzo 1974
Gino Marotta

 


Il cuore di Visca è certamente polisemico, perché rosso e viaggia sul Gran Sasso. Potrebbe anche essere un titolo famoso. Il futuro ha un cuore antico, di leviana memoria. Se così fosse le immagini oggettuali della sequenza sembrerebbero configurarsi in un post conflagrazione atomica. Il cupio dissolvi, la dissoluzione, la sparizione, il dolore. Una costellazione di categorie entro cui si muove, con cinesica malinconica e fatale una processione verso la montagna. Un corteo patologico perché senza mito. In questo panorama sembra sopravvivere solo la vitalità del corpo con la sua manualità ossessiva, metastorica, artigianale. Gli indici della sopravvivenza sono espliciti: l’uomo, il suo disegnarsi simbolico, il suo delimitare lo spazio protetto, i suoi conati di formalizzazione (il cuore, appunto), la sua costretta socialità (sia pure la piazzetta del borgo), il suo addobbarsi prima della partenza, il sistemarsi in processione, il salire «come prova», l’arrampicamento rituale, la risoluzione al vertice, con il terminale fissaggio cardiaco. Sembra il lessico strutturale di un qualsiasi pellegrinaggio della tradizione popolare che Visca conosce, in parte vissuto, in parte ri-vissuto criticamente in artiste. Il tutto accompagnato da una glossalia magica e rassicurante; inventata: Portarsi all’alba di un dì di festa ad una altezza di almeno mille metri dal livello del mare Al canto del gallo cucire un cuore di pezza rossa della lunghezza di circa due canne trapuntandolo con vero spago di ortica Ligare intorno alla fronte dei portatori una fascetta di seta rossa A notte adagiarlo con cura su di una lettiga di presso costruita con verghe di legno di ornello e spaghi di raffia Portare il cuore fino ad una altezza di circa tremila metri dal livello del mare e lasciarlo per tre giorni e tre notti alle intemperie Al terzo dì discenderlo lentamente a valle e abbandonano senza mai voltarsi indietro La comprensione di questa processione sarà più chiara a chi conosca le variazioni sul cuore di Visca: un polimaterico a sorpresa, naif, artigianale, sofisticato, patetico, serico, cartaceo, infantile, fantastico, iterativo, manuale, etc. Con un cuore, così consumato nei laboratori di Barnard o di Houston, che vorrebbe apparire nella sua continuità simbolica persistente. Il viaggio delle immagini di Visca a me sembra proprio disperato, ancor più sospeso nella speranza che possiamo avere noi contemporanei. Ancor più livido nel bianco e nero di lammarrone, un classico ormai della fotografia antropologica. Cioè dell’uomo, con i suoi vestitini ed i suoi scapolari di contadina memoria, attaccati al corpo automatico, vitale.

Roma, novembre 1979
Diego Carpitella

 


IL SUO IMMAGINARIO

Sandro Visca è uno di quegli artisti «segreti» che sfuggono alla misura critica del consumo dell’arte, o meglio dell’arte di consumo (nelle prospettive di un’estetica che non a torto è stata detta «sportiva»). Lavora infatti da vent’anni, solitario, secondo una propria coerenza di riscontro ad un immaginario personalissimo, che non è «fuori della storia», ma in una «sua» storia, anzitutto (giacché la storia è poi fatta nel concreto dalla dimensione creativa di ciascuno), ed entro una storia, se vogliamo «parallela», di un’area culturale antropologicamente ben definita, alle fonti remote della quale quel suo immaginario si alimenta, scandagliandone in recessi profondi. (Lo ricordo giovanissimo e inquieto testimone dal tempo delle ormai epiche – anche proprio per la loro poi inarrivata indipendenza – Alternative Attuali aquilane negli anni Sessanta). Non che Visca sia pittore «folclorico», intendiamoci. Infatti quel patrimonio antropologico scandaglia e attualizza reinventandolo a misura del proprio immaginario, interamente giocato sull’evocazione simbolica pregnante, in una continua oscillazione fra narrazione appunto di simboli e sintesi ionica, a volte persino aggressiva nella sua prensilità emotivo-immaginifica sul lettore. Il suo dialogo antropologico profondo è d’altra parte di naturalità colta. Lavora infatti Visca su simboli d’accentuata icasticità il cui assemblaggio, e il cui conseguente snodo narrativo, molto rastremato, come nei fregi romanici delle chiese d’Abruzzo, acquisisce una massima evidenza icastica e impressiva; a loro modo infatti sollecitanti, starei per dire terrifici (anagogici, certo, comunque), se in realtà quell’immaginario non fosse fatto, ad evidenza, di dolcezze evocative, di sensuoso lirismo, in remoti echi d’amorosi rapporti. Esplicandosi d’altra parte in un figurare sontuoso, quasi carico di indefinite seduzioni d’Oriente (scopre forse dagli alti orizzonti marini abruzzesi un lembo di magico lontano?); in un figurare fitto che carica tutto, il simbolo quanto il suo contesto, d’una straordinaria intensità di tessuto d’immagine. Tanto più ricca questa contestualità di segni simbolici, e microsegni tissulari, giacché percepita spesso in una varietà di materie (così da aver sperimentato, e portandosene poi comunque sempre l’eco anche sulla superficie diciamo «pittorica», pure la costruzione straordinariamente icastica di figure totemiche di simboli di carica magica avvincente e straniante). L’impianto narrativo dei suoi dipinti si arricchisce nell’articolarsi dei simboli in soluzioni sempre nuove ed inedite, in un pullulare di proposizioni che rinnovano continuamente le soluzioni immaginative. Ma la tematica del suo fare verte da anni appunto su un nodo di amorosi magici riscontri. Dieci anni fa espose a Roma «dipinti» sul tema dei Ligamenti d’amore e quest’anno ha proposto a Pescara Fuochi d’amore. Nel 1979-80 ha realizzato l’azione Un cuore rosso sul Gran Sasso, inerpicandosi proprio sul maestoso macigno con una grande cuore rosso, perduto simbolo di memoria umana nell’immensità della natura sovrana. Il suo mondo è magico, e dunque ogni elemento, immagine simbolica, contesto, del «dipinto» (come altrimenti nella sontuosità polimaterica accattivante e seduttiva nelle costruzioni che chiamo totemiche, ma sono forse anche grandi «ex voto» affettivi, ha funzione squisitamente di simbolismo magico in tutta la sua densità ed ambiguità evocativa. Quasi formularsi di magiche evocazioni di comportamenti possibili, ove l’umano, remoto e attuale, è il termine di riscontro, ma ove il transito dal naturale all’artificiale (più propriamene magico) è continuo. Qui per esempio fra il fuoco come fuoco (il fulmine, la fiamma) e il fuoco artificiale, appunto. Naturalmente il suo è uno scandaglio di profondità interiori della struttura antropologica perenne dell’uomo, non lette però in archeologia, ma in attualità di dialogo: voglio dire ben consapevole dell’estroversione clamorosa del nostro tempo di un prepotente immaginario di massa (di qui quel suo figurare per schematizzazioni da «fumetto», si potrebbe dire). Ne viene un orizzonte d’immagini festevole, ludico (e Visca mi parla infatti di recupero di una «festività persa»), ove il gioco tuttavia non è liberazione altrimenti alienante, ma è evocazione, invenzione, scandaglio di nessi possibili, vitalmente significanti. Il traguardo è l’immaginazione come potenza di costruzione di un mondo più ricco, diverso nella sua densità animistica, ove ogni segno è dunque anche altro da sé, come ogni suo elemento in campo è sì allusione alla figura simbolica deliberata, ma anche carica d’immaginario ulteriore attraverso l’intensità direi di «decoro» espressivo del suo stesso tessuto, sempre sontuosamente condotto, e perciò mai inerte, mai puramente descrittivo (sia pure nella distesa semplicità di una sintesi figurativa estrema). Un’iconologia di oggetti quotidiani, perché la base del magico è la prossimità del mondo domestico, si anima (proprio animisticamente) e si dichiara in una capacità e imprevedibilità simbolica. E di qui nasce l’avvio del suo tipico sincopato narrativo. Sono immagini lucidamente inquietanti proprio nella loro nettezza, a tutto vantaggio dell’esplicazione simbolica. E il simbolo è lo strumento (e il traguardo) dell’arricchimento narrativo; di una compenetrazione della quotidianità nell’immaginario di altrovi remoti possibili, che rendono magica ogni presenza, ogni evidenza, ogni particolare non solo dell’immagine protagonista, ma appunto del contesto nel quale questa si viene a dichiarare, entro il quale, se vogliamo, ci appare, e racconta di un’inalienabile realtà della (e di un inalienabile diritto alla) fantasia dell’altrove, dell’altrimenti, di remoti sensi che caricano la vita di una sua fascinosità inarrestabile, di un folto patrimonio di memorie.

Roma, dicembre 1985
Enrico Crispolti

 


CUCITI (Antropologia e Arte)

Il sentiero dei linguaggi di Sandro Visca è segnato da eventi mitici, realtà pietrose, processioni festive, metafisici ritrovamenti; è un “tratturo culturale” che registra le transumanze dall’oceano Adriatico al Tibet del Gran Sasso. I Saraceni sbarcati ad Ortona, gli Slavi mercanti di cavalli di Lanciano, gli Albanesi guerrieri di Villa Badessa portano sulle gualdrappe dei loro destrieri gli echi di Bisanzio e degli Sciiti, l’opulenza e il sangue degli imperi e delle guerre che li hanno costruiti. L’obiettivo di Visca mette a fuoco le immagini e, da fattori esogeni, le trasforma in storia iconografica, ne fa sofferenza e festa, le ripropone attraverso il filtro della sovrapposizione e del confronto. Solo così si può entrare in questo “cucito”, e non per nulla Visca chiama cucito l’intenso lavoro di strappo e di costruzione. Cuce l’arte monastica delle abbazie benedettine, le ombre e i fuochi che si chiudono nelle navate di S. Liberatore, il Chronicon Casauriense con i suoi contrappunti carolingi. Ombre e fuochi non di luoghi ma di culture a scontro. I vessilli di violenza trasferiti dalla Francia con il duca di Guisa fronteggiati dall’oro e dal rosso del duca d’Alba sono le striscie di stoffa-storia che avvolgono l’Abruzzo nelle sue miserie e nei suoi splendori. I villaggi sono attraversati da questi lampi di follia, da queste dominazioni icastiche. Ma dentro le case segrete si tessono le stoffe della comunità, gli emblemi di una cultura pastorale e contadina che ha portato nell’iconografia cattolica gli elementi della propria arcaicità. Nelle contrade camminano i santi con al collo le serpi di Angizia; s’inchinano i buoi in chiesa e defecano; franano dai dirupi di Pacentro gli zingari nudi, feriti e vittoriosi per essere rivestiti con il panno sacrale. Gli stendardi ricamati di denti miracolosi, le pelli di lupo per vestire gli attori nell’eterna rappresentazione del dramma selvaggio/coltivato, le fanciulle vergini cariche di pizzi e ori, le tovaglie e le coperte spiegate sui percorsi delle processioni sono le stoffe-storia che il popolo estrae dal proprio passato per tracciare quel sentiero dei linguaggi sul quale Sandro Visca raccoglie reperti per immetterli nella sua sfera di lavoro e di etnicità. Il sentiero non serpeggia solo tra paesaggi culturali e umani ma attraversa fenomeni della natura: massi e acque, temporali e arcobaleni, nembi gonfi di pioggia e di saette e cirri appesi ai cieli di montagna, lenzuola di neve e alberi dorati, foglie di bosco e fuochi notturni. Non intendo restringere il mondo del rappresentato, ma non altrove che in questo Abruzzo di passato e di presente, di impennate montuose e di voragini, di mari d’acqua e di lana, non altrove, Sandro Visca avrebbe potuto farsi artigiano e cantore ditale profondità e saggezza, di tanta matura contemplazione e colorazione affettiva. L’operazione ermeneutica apparentemente contrasta con la tensione a immettere la storia nel mito, la realtà nella fantasia. Ma, di fatto, non è forse corrispondente a quella verità che si intravede nei Venerdì santi di Chieti o nelle resurrezioni di Sulmona? L’ermeneuta Sandro Visca non vuole storicizzare gli accadimenti ma li interpreta e cuce per noi su un canovaccio preparato da millenni. I cuciti fanno parte d’una genetica per mezzo della quale si spiegano permanenze e mutazioni, in una condivisione conscia e sistematica dei passaggi che regolano le misteriose leggi della riconciliazione psicologica tra presente e passato. Ricordo, splendida coerenza alla scelta di costruire e vivere la propria appartenenza tribale, la processione inventata nel 1975 da Visca per trasportare da S. Stefano di Sessanio alla cima del Gran Sasso il grande cuore rosso di pezza; prova iniziatica del corpo e della mente, sfida al silenzio e all’indifferenza. Quel percorso rituale l’ho registrato come un moto di recupero che partendo dall’aggregato domestico, dalla forzatura emblematica annullava lo spazio temporale del mito. Tentativo di imporre, fuori dalle logiche sclerotizzate, il risveglio d’un luogo del meridione sulle tracce delle proprie gestualità quasi a confrontarsi con la lettura non materialista dei fatti sociali, disperato tentativo di sciogliersi dagli schemi dell’antropologia scritta. Vorrei annettere, e non a forza o per polemica, l’opera, il “lavoro sul campo”, di Visca al mondo aperto dell’antropologia visiva. Vi è stata sempre diffidenza per chi scrivesse bene il testo antropologico, poi, per chi fornisse belle immagini all’antropologia visiva; chissà mai cosa si dirà oggi contro chi pensi di collocare questa impresa nelle trame dell’indagine e sintesi antropologica. Quando Lévi-Strauss scrive “Tristi Tropici”, non ne fa solo un documento ma un testo sottile e permeabile, il tessuto di comprensione per la situazione socio-culturale da rappresentare e per il riconoscimento del proprio stato di testimone. Quando Joris Ivens filma la Cina, le immagini bellissime scardinano gli stereotipi e invadono i campi della ricerca e della comunicazione scientifica. La personalità di Visca si raddoppia non si sdoppia, raccontare-interpretare, rileggere-proporre, intervento complesso che si allontana dalla fattura folklorica e rinnova canoni e parametri per affermare un’esplicita estetica dell’arte popolare. L’opera è tesa a cancellare il rincorrersi delle mode d’una borghesia mercantile che crea i suoi feticci primitivi e celebra i suoi rituali attorno agli ex-voto, ai presepi napoletani, alle canzoni popolari. Questi cuciti, sapienti di tutto ciò che è passato sopra il “Continente Abruzzo”, composti di tutti i ritagli di cronaca, contenenti tutte le reliquie, aprono un microcosmo a dimensioni universali e collocano i momenti operativi popolari nell’asse portante della Storia. E la storia è tutta: quella infilzata sulle spade degli eserciti, sulle falci dei contadini, sulle pirocche dei pastori. Quella tessuta nelle tovaglie di lino, nei pizzi di Pesco Costanzo, nel capecchio dei transumanti. Vi si legge furore, sopraffazione, coraggio, allegria, fantasia, spreco, povertà. I cuciti di Sandro Visca sono gli stendardi di questa nobiltà, pagine ricamate del vocabolario delle caste, mappe di complessi territori culturali. L’impegno è di fare antropologia visiva con un intervento d’arte, esplorare e far emergere i microcosmi così come per la storia fanno Duby e Le Goff; Perché lì sono i semi dell’albero del mondo. “Nascita di un asparago”, uno dei cuciti più recenti, non è enfatizzazione suicida ma emblematica indicazione della traccia di ricchezze che da un grumo di materia esplodono nella continuità come le stagioni. L’insegnamento non sta nel solo fatto culturale, è anche nell’evento manuale. Cucire, per la sua ripetitività, non è un gesto solitario; nella comunità contadina ha sempre determinato l’ampiezza del reticolo di relazioni. Si cuce sulle porte delle case, nelle aie, nei cortili; il cucito veicola la parola, è strumento di comunicazione con il quale Visca ci trasmette dai territori della cultura popolare le tecniche arcaiche dell’estasi. Come uno sciamano, cuce parole e stoffe, costruisce oggetti rituali per il “volo” e, dall’alto spazio raggiunto, scruta nelle pieghe della storia il futuro.

25 aprile 1986
Tito Spini

 


GLI ARAZZI

Da circa metà degli anni Settanta Visca ha realizzato degli arazzi, cuciti a mano, e in effetti degli “assemblage”, non soltanto di stoffe, ma di elementi oggettuali diversi. Li espone soltanto ora, per la prima volta, e li raccoglie in questa pubblicazione, “Cuciti”, 1986. Sono in realtà veri e propri quadri di stoffa, e certo non deduzioni decorative. La traduzione dell’arazzo contemporaneo, come si sa, è assai ricca, e proprio lungo due versanti in certo modo contrapposti. Il primo, ove si è recuperata, e al tempo stesso in qualche misura provocata, la tradizione aulica dell’arazzeria (da Lurçat a Cagli). Il secondo, ove invece hanno avuto campo soluzioni sperimentali, in tecniche infatti sempre più disinvolte nelle commistioni ed aggiunzioni di materiali, non soltanto tessili; e comunque spingendo quelli tessili al massimo della loro mobilità e articolazione (da Depero alle recenti fortune della tessitura d’avanguardia). Naturalmente il lavoro di Visca si colloca in questo secondo versante, d’illustri frequentazioni nell’ambito dell’avanguardia italiana, a cominciare dai futuristi. Se Balla dipingeva i suoi arazzi, sull’apposita tela, certamente in una scorciatoia dovuta a ragioni economiche, non perciò tuttavia risultando diminuito il fascino di quelle sue realizzazioni di grande formato, e Prampolini, come altrimenti Pizzo Rizzo progettarono e fecero realizzare arazzi (e tappeti), tessuti ad alto liccio (almeno certo il primo), Nizzoli preferì ricamarli; e invece Depero immaginò una tecnica di assemblaggio di panni di lana coloratissimi, secondo l’acceso gusto cromatico largamente campito della sua pittura (in una tecnica che è quella che chiamiamo oggi “patchwork”). L’arazzo diveniva così sostanzialmente come un quadro dipinto con materiali diversi, tessili appunto. Ed accentuava una propria presenza di immagine, provocante, proselitistica (per i futuristi), entro lo spazio quotidiano, domestico, invadendo maggiormente tale spazio, condizionandolo dunque, e consegnandosi d’altra parte in una materialità assai meno ideale invece assai più prossima e immediata che non il mezzo tradizionale “pittura”. Una diversa possibilità di pittura dunque. Non credo tuttavia che l’origine motivazionale dell’interesse di Visca per l’arazzo cucito e assemblagistico sia di natura avanguardistica. Mi sembra invece chiaramente di natura antropologica, nel senso cioè che nel denominatore non vi è qualche clamorosa evidenza affermativa dell’immagine e del linguaggio figurale su un presupposto ideologico, ma l’appassionata rilettura, sul filo di una intensa partecipazione emotiva memoriale, di un patrimonio di manualità domestica nella sua ancestrale tramandata sapienza, affondando in livelli d’impressività emotiva infantile, e sviluppandovi una propria del tutto autonoma avventura di intimo dialogo iconico quanto oggettuale, nella dimensione dell’immagine infatti quanto della materia, del tessuto, dell’oggetto, non meno direi che del punto. Il fascino di questi arazzi di Visca è infatti tutto nella loro discorsività fantastica, nella loro capacità di intensissima suggestione di magiche preziosità, che si raccontano in presenze simboliche e allusive, di elementare e il più spesso criptica (giacché privata, intima) simbologia, in accenni narrativi fabulisticamente spiazzanti. Una discorsività che non è soltanto appunto d’immagine, ma di materie, di tissularità della materia, in una straordinaria e veramente magica varietà di componenti, materiologiche, cromatiche, segniche, oggettuali; così da sostenere una fascinazione continua, che è dunque tanto dell’icone complessiva, quanto della preziosità estrema che ne sorregge la “texture”, a sua volta assai differenziata episodio per episodio, componente per componente iconica del racconto, secondo che quest’ultimo nella sua funzionalità richieda. Si collocano, questi arazzi, nel lavoro di Visca, fra le straordinarie costruzioni oggettuali di stoffe ed altri materiali, magici, preziosissimi, appassionati totem domestici, nati attorno al tema delle bambole, all’inizio degli anni Settanta, feticci fascinosi; e insinuanti e la vivida intensità fantastica delle sintetiche aperture narrative dei dipinti che corrono lungo gli anni Settanta e questi Ottanta. Dalle costruzioni oggettuali ereditano direttamente quella che chiamo discorsività manuale, cioè il dialogo con le materie e gli oggetti significanti, e il senso di presenza oggettualmente fisica dell’immagine, pur così intensamente fantastica nello spiazzamento immaginativo che la preziosità spinta delle materie e della stessa virtuosità manuale del lavoro vi provocano. Mentre, se con i dipinti a volte gli arazzi condividono soluzioni iconiche, come certi stilemi di sintesi narrativa, in realtà se ne staccano proprio perché “l’unicum” della ricchezza materica (soprattutto naturalmente tessile) che di volta in volta li distingue vi crea una densità di presenza a mio avviso superiore alla distensione grafica che spesso i dipinti altrimenti assumono, nella loro cesellata mosaicatura di preziose nette superfici. Qui, negli arazzi, la manualità trionfa come esperienza d’una sorta di anamnesi privata, d’una avventura che attraverso il percorso del cucito, risalendo itinerari di memoria costruisce un proprio mondo iconico e materico di continuamente sorprendente risalto fantastico e di continua insinuazione magica che vi si realizzano infatti entro livelli molteplici d’antichi richiami, affondati in una simbologia primaria d’affettività remota, rivissute in magica stupefazione come di favola avvolgente e spaesante verso una dimensione di assoluto dominio e sommesso ascolto d’antichi sensi e perdute magie. È essenziale alla natura espressiva di questi arazzi il loro essere cuciti a mano, ma in una manualità che non è esecutiva, non è iterativa, ed è direi invece euristica, e a volte quasi rituale e devozionale. Cucire è ricercare e costruire la propria dimensione fabulistica magica, è attingere livelli memoria, è godere sensitivamente, sensualmente di materie, di oggetti, di ricordi, di allusioni, di proiezioni fantastiche. Il lavoro è naturalmente lento, perché ogni passo è motivato, vale infatti l’individuazione di un elemento concorrente a costruire il racconto, che è sì fatto dall’icone che infine ne risulta, ma anche appunto dal tragitto di affettuosa, passionale, manualità percorso per raggiungere la definizione di quell’immagine. Non solo dunque un’immagine fantastica, ma un effettivo viaggio fantastico; e ne trovi traccia nella ricchezza d’ogni segno, d’ogni passaggio, d’ogni elemento, stoffa, oggetto, punto. L’immagine conclusiva, nella sua ricchezza spesso suggestivamente strepitosa, racchiude ed esalta questa vitalità di lavorazione, che vi è vera e propria esperienza del fare come dedizione ad una ritualità manuale antica, riscatta da perdute profondità ataviche, e rimergente da livelli di evidente memoria infantile personale. In questo senso è chiaro che gioca intensamente negli arazzi di Visca appunto l’origine motivazionale antropologica, legata esattamente ad uno specifico patrimonio della sua terra d’Abruzzo, dalla fiera rusticità arcaica della quale tuttavia Visca traspone chiaramente ogni suggestione in una diversa misura di magicità inarrivata e quasi inarrivabile, proprio direi quasi per dimostrare la possibilità d’attingerla ormai soltanto in dimensione d’esaltazione fantastica e fabulistica, cioè nell’ostenzione di una dimensione magica e sottilmente sacrale, impraticabile se non in una dedizione totale all’intensità della fantasia. Che è poi fatto tutto privato, intimo, come di chi si crei un proprio orizzonte alternativo. Perciò Visca non è archeologico in senso folclorico, come d’altra parte non è arcaico, né arcaicizzante, ma magico nel senso di giungere ad una preziosità irreale di soddisfazione (propria appunto anzitutto) fantastica e magicamente sensuale. A volervi avvertire una dinamica interna, in oltre dieci anni di lavoro, si può notare, credo, una maggiore concentrazione totemica nei primi di questi arazzi degli anni Settanta, d’altra parte risolti in grandissime dimensioni, e una maggiore propensione narrativa negli ultimi, di dimensioni più circoscritti, e in certo modo più dialoganti con la pittura di Visca, mentre i primi sono più segnati dalla precedente esperienza delle costruzioni oggettuali polimateriche. Per esempio un tema ricorrente negli uni e negli altri, il “paesaggio”, nei primi è più enigmatico, più misterioso, mentre nei secondi si distende in un racconto fantastico essenziale, ma certo più discorsivo nella descrizione dei suoi diversi elementi. Sono oggetti sempre comunque di straordinaria preziosità, che traspongono cioè l’immagine appunto ad un livello ove il prezioso, materico quanto iconico, è magico e fantasticamente involvente. Ove dunque si esaltano le qualità tipiche dell’immaginario di Visca, circolante del resto con la medesima autorità suggestiva nelle diverse esperienze da lui attraversate e nelle stesse contemporaneamente frequentate. Giacché Visca è artista liberamente operativo in modalità diverse di manufatto, pur in una medesima tensione appunto allo spiazzamento favoloso, che tuttavia realizza in differente intensità proprio attraverso le differenti occasioni operative che va coltivando.

Roma, agosto 1986
Enrico Crispolti

 


UN ALFABETO DI VENTIQUATTRO SEGNI

Va detto subito che ogni uomo vorrebbe avere l’aspetto del Sean Connery maturo, l’aspetto appunto che Sandro Visca si porta in giro con calma e con serenità. Ma io, in particolare, vorrei vivere nell’ordine pulito attento e rigoroso dello studio dove disegna, pensa e forma le sue opere. Un ordine che tanto contraddice le disordinate furie pseudo-creative di tanti studi spiritati e fasulli, di tanta deprimente e scoraggiante ideologia della creazione ad ogni costo. Creazione che dovrebbe, per necessità, sorgere da stanze in disordine, da pavimenti ingombri, da muri imbrattati di inutili segni “creativi”. Lo spazio attorno a Visca è semplice chiaro, gli strumenti sono amati, protetti, arrangiati nel loro inevitabile ordine gerarchico. L’unico ordine che sancisce il grado di aristocrazia: io strumento più nobile è quello, al momento, più usato. E, come tale, domina discretamente sugli altri. In attesa di essere sostituita dall’ago e dal filo e dai cuoio la matita siede ai posto giusto. Sarà, più avanti, il ruolo dominante della sgorbia, del bulino, del trapano a modificare ancora una volta, con precisione funzionale, questa mobile scala sociale degli strumenti. Non so se il paragone farà piacere a Visca ma il suo studio mi ha ricordato fittamente nei particolari un immenso garage nel nord più nord del Canada dove viveva una donna giovane e, apparentemente, sola. Vi ricorremmo per un guasto al camper. Essa aveva tutti gli strumenti in ordine immacolato, tutte le forme di cacciaviti, di trapani, di livelle… mi ricordò, essa, Calipso che porta a Ulisse seduto sulla riva e disperato di partire tutti i necessari strumenti, che essa evidentemente possedeva e conservava. Dea solitaria al limite del mondo umano e divino. Mi domanderei adesso a quale viaggio immobile si appresta Sandro Visca da questa plancia di comando così geometrica, uniformemente luminosa e onestamente abitata. E poiché per i viaggi occorrono le carte geografiche e i cammini mi pare che queste tre stanze siano la sede della evocazione e della rappresentazione di mondi da visitare, non da conquistare. Da amare, non da possedere. Che si tratti di viaggi e di mappe me ne ci sono convinto, anche se la convinzione non corrisponde forse all’intenzione di Visca. Ma nell’idea di viaggio si integra forte e definitivo il senso della possibilità di vivere e quindi l’attitudine gentile e sicura che val la pena di muoversi. Che val la pena di inseguire dei segni, delle correnti, dei profili di monti. E, se ne vale la pena, vuoi dire che di vivere vale la pena. L’altro aspetto gradevole di Visca è la coscienza tranquilla che le cose potrebbero andare infinitamente meglio ma che non conviene urlare, dimenarsi, agitarsi, lanciare sguardi allusivi e carichi di “indignazione”. Il compito che egli si è attribuito è quello di tracciare, per se e per gli altri, linee di fuga, uscite di sicurezza, aprire porte e finestre troppo spesso dimenticate chiuse, aggiungere ad aggettivi lieti e positivi altri aggettivi lieti e positivi, tracciare con cura le curve altimetriche di un paese che viene solo sognato. In un certo senso eroicamente muoversi con calma e in silenzio facendo vedere, non ostendendo, le infinite combinazioni della felicita. Esploratore accurato e partecipe delle realtà geografiche e umane del Sud America egli sa benissimo come cantava Atahualpa Yupanqui nel suo desolato “Camino del indio”: “Caminantes, no hay caminos, se hace camino al andar…”. E quindi i suoi percorsi, le sue mappe, i suoi testi grafici e plastici contengono momenti di scoraggiamento, tristezze improvvise, dettagli atroci e minuscoli (le “minuscole ignominie” di Borges). Esattamente come entro la pagina multicolore e solare di Marquez stanno certe disperazioni, certi suicidi annunciati, certi silenzi mortali così tra le stelle e gli svagati asparagi di bronzo e fulmini tipografici incontri un uccello smarrito, un artiglio adunco, un fuoco che brucia solo se stesso. In “Map and Mirror” Sir Ernest Gombrich descrive la complessa fenomenologia culturale della mappa e vi riconosce una forma ibrida sospesa tra l’alfabeto, la pittura, la poesia e la “semplice” rappresentazione. Così paludi sono disegnate come paludi con piante infestanti, i boschi sono fitte compagini di alberi stretti stretti tanto da non farti vedere il terreno, le città formalizzate sono un campanile, un ponte una porta. A volte ci incontri persino l’ombra, il riflesso del fiume, il cancello semiaperto di un orto. Ma accanto hai il numero, la misura, la scala, il nome. E, coerentemente, le mappe di Visca, hanno questa qualità di testo scritto con un alfabeto semplice e chiaro e di pochi simboli. Guardando e riguardando le immagini da lui dipinte, incise, cucite, fuse e ricamate (perché Visca ricama, anche) ho annoverato circa ventiquattro geroglifici. Mi sembra che egli scriva con ventiquattro simboli. Gli bastano. Mi bastano. Non li elencherò qui tutti ma sono così gradevoli, così riconoscibili, è così piacevole rincontrarli immagine dopo immagine, riconoscerli nella loro continua metamorfosi che fa piacere farne una sorta di abbreviatissimo dizionario, o forse vocabolario. Angolo: a volte sembra proprio l’Angolo, quello dei testi di geometria per le Scuole Medie. Con il suo bravo cerchietto ribattuto al vertice, altre volte addirittura esce da un arco di cerchio che, però se lo guardi diventa sempre più “arco” e la Geometria Elementare si scioglie scompare e la freccia può, finalmente, partire. Ma l’Angolo, senza annunci, diventa facilmente una vela piantata un p0’ di sbieco su di un mare che sarebbe piaciuto assieme sia a Klee che a Euclide. Fulmine: è il fulmine tipografico. È la vera saetta con i fianchi a zigzag, la punta acuminata che si infila nel mare, il fulmine del bambino e dell’eroe, il fulmine delle previsioni del tempo. A volta scende verso il basso da nuvole ondulate e scalate astutamente dei colori figli del blu, a volta sale dal basso, esce da camini, si allontana da fiori schematici e “fulminei”. Può essere rosa, può essere di bronzo, può essere nero o solo essere fatto di aria, ritagliato come in negativo dalla nuvola madre, come in “Piccole Tempeste”. Asparago: inequivocabilmente ortofrutticolo. Gli Esegeti che si sforzeranno di dargli connotati fallico-freudiani dovranno fare i conti con la sua assoluta immacolata vegetalità, il colore brunoverde delle foglioline, il gambo abbagliante, la cuspide russa e violetta. Ma esso si presenta a volte solo, a volte in gruppo con altri fratelli, alcuni un po’ barbari e coperti di scaglie di cuoio come il catafratto di D’Annunzio. Altri si presentano lignei o germanici, o scivolano sinuosi come il loro riflesso su di un’acqua oleosa di un porto. Sembrano insensibili e silenziosi, e quasi arroganti. Ma ne incontri alcuni che sentono fortissimamente l’attrazione di una stellina di bronzo lontana e si tendono verso di lei, spuntando obliqui e curiosi oltre una coltre di onde matematiche. Ne incontri quasi un clan in “Asparagi” ma, nel “Giardino dei frutti proibiti” l’asparago è il Re (degli scacchi). Mi ricordano, queste creature vegetali così arcaiche ed essenziali, ma buonissime da mangiare, l’episodio narrato da Brillat Savarin nel suo “Meditazioni di Gastronomia Trascendente” in cui si narra dello scherzo bonario inferto a quel Canonico che era oltremodo orgoglioso dei propri asparagi che egli faceva crescere nell’orto dietro la chiesa. Nottetempo vennero, gli amici, colsero gli asparagi veri e li sostituirono con una popolazione di falsi asparagi ben scolpiti ben colorati che, notte dopo notte, facevano “crescere”. Sino al ligneo, beffardo banchetto finale. Quelli veri erano ormai stati ampiamente celebrati in un altro, più privato, banchetto cui il Canonico non venne invitato… Spirale: destrorsa o sinistrorsa, sottile o resa barocca di tutta una popolazione di segni e di colori sta sola osi accompagna ad altre sorelle. Può uscire da una sorta di camino o, piuttosto, da una guglia conica di castello francese cui è attaccata da una piccola presa, una mano nascosta che la trattenga sul posto. Che le impedisca di volarsene via. Ma, altre volte, è il percorso stesso dell’Uccellino (vedi alla voce) che se la tira dietro in racemi e intrecci di una memoria calligrafica e piamente scolastica. Uccellino: è questa la creatura viva forse unica ma quasi sempre presente nelle mappe di Visca. Si tratta di un uccellino che sta a mezzo tra la pernice e la quaglia tra la gazza e la triste gallina. Quella che, per capirsi,: “ritorna sulla via…” una volta smesso di piovere. A volte moltiplicata in uno stormo che punta ad un eroico esodo senza ritorno, o che ritorna dopo l’ennesima migrazione. A volte curiosa, sola, mezzocelata nel verde smerlato di un prato ricamato a giorno (ma un po’ cattivo nelle lame dell’erba) attende che il cacciatore si distragga. Ma la volta dopo è atterrata, morta forse, uccisa da un inganno nell’Agguato di un disco di bronzo sospeso su quattro artigli lucenti. Come in “Cacciatore” di Garcia Lorca dove “quattro colombe per l’aria vanno, volano e portano le loro quattro ombre” già morte. Cosa essa sia per il suo creatore o compagno, non lo so. Ma da questa creatura inerme e indistruttibile, paurosa e impavida spira una costanza nel voler sopravvivere, nel voler vedere, capire e esserci che non la scambierei ne con l’Aquila, ne con il Pellicano, ne con l’Araba Fenice. Stella: è quasi invariabilmente pentagonale e senza simmetrie stellari, un po’ malfatta, con i raggi diseguali, buttata li per caso, opzione della Creazione astronomica. Più grafica e infantile che scientifica e siderale stabilisce attorno a se un campo gravitazionale gentile e inesorabile che vi attrae punti colorati, fumi, teste speranzose di asparagi e altre stelle. Potrebbe questo dizionario, questo vocabolario dei segni individuali di Visca continuare tanto che mi da piacere rievocarli dopo che li ho isolati dal loro mondo, li ho “tirati giù” e li ho messi in ordine non alfabetico. Quello che commuove e seduce sono quasi sempre le forze invisibili che si intrattengono tra questi simboli, tra queste parole. Una stella si piega verso un asparago, una spirale mette un vento intenso e verde in una popolazione di asparagi che seguono la brezza e che, se non fossero radicati, se ne starebbero adesso tutti per aria. Una stella, forse marina (magari un riflesso di una stella) galleggia su di un’onda di bronzo e, a parte, sta una punta acuminata ma rotonda, lucida ma non dura, che allude alle profondità di quel mare. Allude alla pericolosità ma anche alle meraviglie della navigazione. Ma esiste un’altra presenza curiosa, celata, resa trasparente dalla sua autoironia. Qua e la incontri delle curiose forme di prospettiva: alcuni tavoli la abbozzano in un angolo per presto dimenticarla in quello vicino. Avvolte un piedistallo inizia ad articolare con precisione infantile e scolastica i nomi delle sue modanature: gola rovescia, listello, scozia, toro… ma poi resta li, perplesso a metà di un segno. Altre vedi delle finestre, aperture in un cubo sghembo che avrebbe fatto la delizia di Pavel Florenskji a veder la sua “Prospettiva Invertita” ancora godere, tra noi miscredenti, di una sua fortuna rara ma salda. Qui sotto c’è, a mio parere, la Scuola e ciò che Visca di essa pensa. Sono restato sorpreso, nell’ascoltarlo, nel rilevare che, a differenza della quasi totalità degli Insegnanti di Scuole Superiori che ho incontrato, non mi ha mai parlato male della scuola. Certo sorrideva nella barba con comprensione delle infinite debolezze di questa nostra creatura fragile e sempre sull’orlo di affogare che è la Scuola. Allora, ma si tratta di personale affabulazione, l’Uccellino mi parve la Scuola. Appiattato per non essere impallinato, reso furbo e veloce per non farsi prendere, attento e paziente per non farsi mettere in forno. Continuamente sull’orlo dell’estinzione ma mai scomparso dagli Atlanti. Sandro Visca non scivolò sul quasi inevitabile pendio dell’ingiuriarla, la Scuola, del condannarla, farne bersaglio di contumelie. Quelle poche citazioni del mestiere del disegnatore, l’accenno parco alla prospettiva, i profili imbarazzati e tronfi dei piedistalli vagamente architettonici, un piccolo ricordo di contrasto cromatico istituzionale, tutto mi ha fatto sospettare, in Visca, un Insegnante paziente ironico e gentile. Una di quelle persone che, all’incontrarlo venti anni dopo, per un viale, metti giù il piede dalla bicicletta e gli dici: “E, allora, gli Asparagi sono cresciuti?”

Genova, maggio 1995
Ruggero Pierantoni

 


IN ITINERE

“Non credo – scrive Crispolti – che l’origine motivazionale dell’interesse di Visca per l’arazzo sia di natura avanguardistica”, ma è facile rilevare come esso si innesti su un importante filone di ricerca dell’arte contemporanea, che comprende tanto il recupero della tradizionale poetica del tessuto, a titolo esemplificativo da Cagli a Boetti, quanto le diverse declinazioni di carattere sperimentale, da Depero a Bai, fino alle esperienze più recenti di Ghada Amer o di Louise Bourgeois, teso comunque ad evidenziare, pur nella sua variegata articolazione, la valenza artistica a forte connotazione comunicativa e sociale che il materiale tessile ha il magico potere di traslare e tradurre. La motivazione che muove Sandro Visca per questa pratica antica è, infatti, anch’essa antica ed ancestrale, nasce dalla confidenza con le proprie radici, dal desiderio manifesto di promuovere una indagine al confine tra ontogenesi e filogenesi, finalizzata a ricucire brandelli di memoria, spezzoni di storia, per ricostituire e ricomporre il tessuto della vita che racconta il complesso intreccio di vissuto e di ethos, in una sequenza di immagini da consegnare allo spettatore come visione immaginifica, ma anche come pellicola tissulare ed epifanica del reale nella continuità del suo inesorabile apparire. Sono i manufatti artistici, un tempo ritenuti minori e succedanei, rispetto a quelli delle cosiddette “arti maggiori”, a rivelare più generosamente le spinte profonde che muovono l’evolversi storico della cultura, ai primordi dettato semplicemente dal gesto che crea forme e produce immagini, non ancora mediate da alcun dettato coscienziale, ma spontanee e vergini nel loro attingere all’origine del fare produttivo e creativo, costitutivo dello statuto esistenziale dell’uomo impegnato, come suggerisce Heidegger, a “costruire, abitare, pensare”. Alois Riegl, uno dei maggiori esponenti della “Scuola di Vienna”, individua in essi i tratti fondamentali del Kunstwollen, il volere artistico che fa tutt’uno con la visione del mondo, e, in Alt orientalische Teppische (1891), getta le basi per un approccio scientifico allo studio del manufatto tanto antico quanto ricco di significati culturali: il tappeto, denominazione estremamente ampia sotto la quale sono compresi sia i tappeti da pavimento sia quelli da parete. Ad essi corrispondono due tecniche dalla diversa tipologia: “per i tappeti da parete la tessitura ad arazzo (Wirkerey), per i tappeti da pavimento l’annodatura”; la prima tecnica è la più primitiva e con ogni probabilità la più antica forma in assoluto di tessitura. Usati “per coprire, per proteggere, per chiudere”, i primordiali prodotti della tessitura venivano adoperati ‑ precisa Gottfried Semper nel magistrale studio Die texile Kunst (1878) ‑ sia per rivestire il corpo, sia per erigere temporanee barriere verso il mondo esterno, e creare così uno spazio abitativo chiuso. “Quest’ultimo scopo ‑ prosegue Riegl ‑ fu raggiunto nel modo più semplice con l’appendere dei drappi tessuti ad arazzo ad una certa altezza dal suolo, o a ma’ di tenda sopra un palo, o a ma’ di capanna sopra due, tre, quattro o più pali”. Così, dalla primitiva tecnica dell’intreccio delle stuoie, nacque la tessitura ad arazzo che si diffuse presso tutte le antiche civiltà, caratterizzando con i suoi manufatti tanto la cultura occidentale che quella orientale: dai peruviani inca, agli egiziani, agli indiani ecc. Dopo aver conosciuto il suo maggiore sviluppo in età tardo‑antica e nel periodo medievale, a partire dal XV secolo, questa antica tecnica, punto di partenza per la tessitura gobelin occidentale, si era già diffusa in tutta l’Europa centrale, dalla Francia ai Paesi Bassi alla Germania, dove veniva esercitata professionalmente, mentre in altri paesi europei fu affidata per molto tempo all’industria domestica rurale. In Italia queste due linee di sviluppo sembra che siano vissute fianco a fianco, tanto che “ancora oggi, ‑scrive Riegi nel già citato testo del 1891 ‑ quasi quattro secoli dopo Raffaello, nei dintorni di Macerata troviamo in piena fioritura nel lavoro domestico rurale la produzione di tessuti a strisce colorate.., un’eredità proveniente da un remoto passato”. E proprio nell’ambito di questa notazione sull’attività tessile della provincia maceratese di un secolo fa, è interessante inquadrare l’evento promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata che, con la mostra degli arazzi di Sandro Visca, ha ancora una volta sottolineato la peculiarità di una tra le sue principali funzioni istituzionali, quella di sensibile e sottile sensore particolarmente attento al mondo dell’arte, sia dal punto di vista della fenomenologia degli stili che dello spirito del tempo. Nel panorama della ricerca artistica contemporanea il lavoro di Sandro Visca si colloca infatti come una variante particolarmente significativa, in quanto strategicamente puntuale nel rappresentare l’attuale sistema dell’arte, caratterizzato da un alto gradiente di diffusività e di consumo del prodotto artistico, che, recuperato soprattutto nella sua originaria matrice comunicativa, pur veicolando un messaggio a forte valenza ad un tempo estetica ed etica, risulta reperibile anche tra gli oggetti di consumo più comuni. Assemblando nel cucito e nel tessuto i materiali più svariati ed eterogenei ai più diversi contenuti rappresentativi, con una speciale attenzione per alcune immagini ricorrenti o emblematiche, egli compone una sorta di glossario metonimico di una immaginifica raccolta di reperti e di tracce mnestiche che contrassegnano e scandiscono il tempo della vita lungo una strada irta di sedimenti iconici che l’autore raccoglie e traduce secondo un codice personalissimo di forme icastiche, cifre araldiche, emblemi e simboli, giocati secondo il sottile spartito dell’ironia. Intende così rintracciare quel percorso di frontiera dove avviene da sempre ed inesorabilmente l’impatto dell’uomo con il mondo, all’origine del gesto creativo che dà senso all’esistere e partisce il reale con contrassegni simbolici affidati alla pratica artistica, peraltro, nel nostro, sempre funzionale alla rappresentatività dell’immagine, anche nel suo fare più raffinato e apparentemente gratuito, con ciò reclamando l’autonomia del suo gesto rispetto a quello di Burri, la cui giovanile frequentazione resta tuttavia un momento indiscutibilmente significativo nella sua formazione. Ma con i suoi segni “cuciti”, Visca, tanto pedantemente quanto pazientemente, si sofferma anche a descrivere l’erranza del segno dissociato prima di diventare forma e configurazione, prima di poter acquisire il suo statuto di immagine, allorché attinge alla fonte incantata del sentire originario per alimentare questo processo lento che muove, punto per punto, alla costituzione di un tessuto, lo sfondo su cui può stagliarsi una possibile forma, una volatile idea, una urgente volontà rappresentativa e immaginifica ad un tempo, metafora di quel processo filogenetico di ben più vasta portata che ha contrassegnato la faticosa, lenta ed errante storia dell’umanità. Nell’avviare l’elaborazione e la raccolta di questi reperti esperienziali, sfociati nella costruzione di “oggetti mentali” conservati nella memoria quali sostituti dell’esperienza stessa, egli declina tutte le strategie tecniche del ricamo per tradurre, in un sistema di segni, cuciti e fermati nel tessuto, spesso seguendo umilmente la logica cogente della trama e dell’ordito, configurazioni e forme apparentemente ingenue, in realtà dotate di intensissimo valore simbolico, codici iconici semplificati ma carichi di vissuto e grondanti di ethos, che egli ha il potere rabdomantico di scovare, raccogliere e presentare così, in itinere. Il grande arazzo squadernato alle pareti della Galleria Galeotti in Macerata è uno straordinario esempio dei lavoro di Visca, una sorta di sintesi che, mentre fa il punto sulla sua ricerca, tradisce anche una intenzionalità trasversale e indiretta, rispetto a quella immediata di carattere artistico, denunciata dalla proiezione dei mondo dell’high tech in un tempo speciale, straniato e sospeso nella lentezza della prassi artigianale, là dove si privilegia l’intervallo e la pausa per conservare tuttavia la velocità, più che mentale, empatica, del fulmineo percorso dell’intuizione, che cattura e collega punti lontani dello spazio e del tempo, da sempre dominio incontrastato dell’artista, sua nicchia privata, in cui è più facile fare venire alla luce il caleidoscopico apparato dell’immaginario. Ma l’artista non inventa arbitrariamente forme, semmai le rende riconoscibili in quanto partecipe di un repertorio di immagini, come quelle che Sandro Visca recupera ed esprime con inconfondibile idoletto nei suoi cuciti, nei suoi arazzi e nei suoi ricami, sia attraverso partiture astratte che inserti narrativi, contrassegnati da colori intensamente caldi e solari avvicendati ad altri altrettanto puri e notturni nella loro freddezza, nonché da configurazioni soffici e morbide, come possono essere quelle assunte da un materiale di natura organica e perciò vivo, sottile ma indispensabile viatico per tessere e fermare, nella infinita sequenza della rappresentazione immaginifica, alcuni fotogrammi simbolici, come quelli che campeggiano qui, in questo originale story board, dove è gelosamente riposto il segreto senso della vita, scritto con i segni indelebili del lavoro umano che fa coppia con il mondo.

Macerata, gennaio 2000
Paola Ballesi

 


L’Ombra d’Oro (Per Sandro Visca, artista “totale”)

Immergersi nel lavoro di un artista che vale, ogni volta in fondo reinventa l’arte, scava in fondo radici umide e nere d’ispirazione, scopre e filtra linfa misteriosa di crescita, celebra come ardito strappo di gioia le nuove gemme che furono, sono o saranno colore, e tutti i fiori destinati a frutti… Enigmi, quesiti, illuminazioni che affollano e trapuntano tutta la sua vita, e soprattutto l’opera, come stelle mimate di un “Grande Firmamento” d’estate… Di Sandro Visca, aquilano sessantatreenne da molto tempo residente a Pescara, cuore cosmopolita e sguardo senza frontiere, da anni celebrato un po’ ovunque come una delle personalità e dei talenti più dotati e sorgivi della sua generazione, mi affascinano tanti pregi e virtù che poi si assommano: il percorso impavido, e soprattutto il rigore in ogni scelta che egli abbia onorato, consacrato nella pura e laica fede nell’arte. Tante cose ogni volta vorrei chiedergli, anche per puntualizzare meglio le coordinate “In itinere”. Ma mi limito a riassumerle in un unico punto: la capacità che ha sempre avuto di accarezzare, tagliare, cucire, incollare, fare insomma deflagrare l’arte come un destino – e non una semplice attività finto-gnomica ma decorativa… Di distinguo in distinguo, e seguendo tutti i suoi anni e risolti progetti di lavoro, mi sembrano poi decisivi – come in un resoconto o racconto biografico – i vari, cadenzati capitoli di una vita spesa interamente a diventare (anche nell’arte) solamente ciò che già era o voleva essere… E che aggregano e intonano come un unico, inaudito romanzo mai scritto: il Romanzo della Materia… E questo interminabile, trasparente romanzo, a pensarci bene, è in realtà l’unico e il vero percorso, quesito, poema, linguaggio, mistero… che abbia donato, assegnato – inflitto – all’Arte la sua Modernità. Ma non certo da ora, se è vero che già al tempo di Baudelaire costruire delle Corrispondenze fra tutto questo era attività pressoché rivoluzionaria, ed elaborare anche la tradizione, ammirare i suoi Fari, significava celebrare e ripercorrere, di volta in volta, sub specie poetica, come un “fiume d’oblio, giardino d’indolenza” (Rubens), “specchio oscuro e profondo” (Leonardo), quasi un “triste ospedale pieno di sussurri” (Rembrandt), “fantasmi poderosi su sfondi di crepuscoli” (Michelangelo), o un “carnevale in cui come farfalle / tanti cuori ilustri vagano fiammeggiando” (Watteau), ma troppo spesso anche l’”incubo pieno di cose sconosciute” (Goya) – insomma un’eco propagata da mille labirinti… Nel labirinto della forma, e della materia, l’artista moderno, si sa, ama perdersi proprio per ritrovarvisi: “Forse questo è sempre stato ma per questo oggi v’è tanta materia, credo di poesia quanto nei tempi andati.” – scriveva, giurava Boccioni, corrente già il 1907, nei suoi confessati, irridenti e fervidi Taccuini futuristi – “La forma cambia e gli artisti ricevendo in retaggio la religione della forma sono divenuti dei ridicoli conservatori. Il mondo ricomincia una nuova era e vuole della sostanza. In altre parole l’Arte deve divenire una funzione della vita e non tenersi da parte sdegnosa… Una prova che gli artisti non hanno seguito il processo di trasformazione sta in questo, che mentre gli scienziati studiano e creano palpitando con l’anima universale che li circonda, gli artisti creano cose morte, e d’un linguaggio sconosciuto non solo ai più ma anche ai pochi. È impossibile che l’era dell’arte sia finita e che sia cominciata quella della scienza. Che l’umanità non abbia più bisogno di canto. C’è sempre un’infinita gioia e un infinito dolore che ride e piange. Quale sarà la formula che darà l’ispirazione umana?”. La forma cambia… Ma ripercorrendo – oggi – tutto il sorprendente e giudizioso percorso di Sandro Visca, mai ci sfiora il dubbio o la sensazione di un benché minimo conservatorismo, di una religione della forma o degli stilemi, in senso diciamo passatista, o comunque abusato. Visca ha sempre cercato intanto dentro e poi anche fuori di sé la matrice cosmogonica, la duttilità sinergetica di questo cambiamento, movimento perenne che si chiama Arte, ed esige metamorfosi, profondità, esattezza fantasiosa, finalmente – questo sì – religio devota alla forma in fieri, al comunicarsi in progress… Dunque mai riposandosi, pascendosi sui propri piccoli o grandi traguardi, e nemmeno sui sacrosanti, già intimizzati raggiungimenti emotivi. La forma non conserva la Forma altro che rinnegandola, rimettendola in gioco, per sempre inseparata, trasfusa ad ogni ombra o luce del proprio tempo. Ecco, Sandro Visca ha sempre studiato e creato palpitando con l’anima universale che lo circonda… Cioè a dire con i suoi materiali, le sue fibre, le sue essenze – i suoi elementi: intesi proprio in senso chimico, fisico. E questo, fin dal tempo dei suoi esordi, e dei primi studi presso la Scuola d’Arte dell’Aquila, intorno al 1961. Nell’aria friggono ovviamente i tormenti e le mode epocali in piena irruenza: Tom Wesselmann coi suoi stralci dalle insegne pubblicitarie, Schwitters e i grandi collages di Merz, il New-Dada, il materico… Ma Visca cerca e già trova una sua linea di fervorosa controtendenza. È del 1964 il ciclo delle Crocifissioni: “una ricerca condotta con il collage, il colore è vivo – quanto i problemi –, scola e si allarga in macchie;” – rileva Emidio Di Carlo – “il segno è pulito e brillante e incide tangibilmente una storia umana rivissuta fino allo spasimo. La figura però (bruciata, dilaniata, cristallizzata) accenna a dissolversi: è il gusto per la materia, la contemplazione della plasticità stessa (un nuovo interrogativo di fronte alla realtà?), della necessità di una nuova componente spaziale, della composizione.” Ed è in questo dissolvimento parziale, in questo sfumato e abbrunito impeto di ricomposizione, di rinascita finanche figurativa – che già si svela un filo costante della sua opera: materico e insieme iconologico… Per questo è giocoforza condurci sùbito al suo rapporto con Alberto Burri. Che nasce nel ’69 ai tempi della sua collaborazione artistica con il Teatro Stabile dell’Aquila. Fervide e dolcissime, a rivederle oggi, le foto che ritraggono entrambi alle prese con il citato allestimento e montaggio delle gigantesche scenografie teatrali per lo spettacolo L’Avventura di un povero cristiano, di Ignazio Silone, per la regia di Valerio Zurlini, a San Miniato, appunto nel 1969. Fui contattato dal T.S.A. perché in Italia nessun laboratorio scenotecnico era disponibile alla realizzazione di quelle scene. Si trattava di due combustioni di plastica, una bianca e l’altra rossa e di un sacco. Bisognava realizzare tre fondali di dieci metri di base per sette e mezzo di altezza in rapporto a tre piccoli bozzetti di Burri. Le due combustioni le andai a fare a Milano dove il Teatro mi aveva riservato un vasto spazio presso un padiglione della Fiera. Riuscii a concretizzare il lavoro non dormendo per quindici giorni di seguito e lavorando ininterrottamente giorno e notte, allora avevo venticinque anni e tutto era possibile. Torna in mente la splendida prosa lirica che Leonardo Sinisgalli – poeta, e insieme estroso, peritissimo critico d’arte – dedicava in L’età della luna (1962) proprio all’amico Burri, visitandolo al lavoro, nel suo studio baluginante e annerito, fumigante ma sublime, quasi arcano eppure futuribile antro di una Sibilla… Nello stanzone semisepolto della Salaria Burri ci aspetta coi suoi vivi occhi di gatto, in maglietta. Vive come un barbone, un mentecatto nascosto dalle ortiche. Sugli spigoli dei muri spara contro due lastre di piombo a contatto o squarcia il fondo di una bottiglia. Appese alle pareti lacere bandiere, vedove gramaglie, fetide culottes, nastrini di medaglie. Ha un bidone di bitume nella stanza, sacchi di gesso, aghi, aghicelle, pennellesse. Soldato di una guerra perduta non fischia, non canta. Cuce, brucia. Naturalmente, vero fine dell’arte, il rapporto, la collaborazione artistica si è fatta anche approdo umano, stima umanista, diremmo, cioè amicizia: ed ecco Visca e Burri, entrambi appassionati cacciatori, cosmogonicamente immersi nei loro tours venatori in Umbria o in Abruzzo, fra lo studio di Burri a Casenove di Mucignano e gli splendidi boschi di castagni del circondario… Conobbi un altro Burri. Diverso da quel personaggio misantropo di cui tutti parlavano. Con me fu molto aperto e nei pomeriggi di riposo, dopo il rientro da lunghe battute di caccia, mi raccontava con passione del periodo della sua prigionia in Texas, dei suoi primi dipinti e delle difficoltà che aveva trovato in campo di concentramento a reperire i primi colori, specialmente i rossi. Mi raccontò anche, con una certa rabbia, di tutti gli sforzi e dell’impegno profuso nelle ricerche del fratello disperso in Russia, ma soprattutto parlammo di pittura e anche del mio lavoro. Ed è un vero Romanzo della Materia, ripetiamo, questo che Visca ci dispiega davanti agli occhi, rapito ed inesausto, ma sempre salvandolo, riplasmandolo non mai con l’artificio ma con il sorgivo, ancestrale anelito dell’Arte… La materia inerte… Da cucire, bruciare, combùrere… E poi il rapporto vitalissimo, eclettico e enciclopedico, ci viene da dire, con questi materiali: dal Laboratorio Metalli della scuola di giovinezza, agli arazzi amplissimi… E questo suo cocciuto, sublime voler “recuperare il colore attraverso le materie”… E soprattutto, recuperare l’Informale con delle parvenze figurate… Quando nel 1964 avvia dunque la sua sentita serie delle Crocifissioni – i 14 tragici momenti umani della Via Crucis – anche qui, come suo solito pregio, Visca scantona, vira, evita implicazioni ideologiche, o azzeramenti, oscuramenti, umiliazioni della sua fertile aurora creativa. Mentre tutta la corrente materica (tutti gli epigoni di Burri, insomma) ponevano la materia a unico logos ed ethos – fine incoronato – delle proprie ricerche espressive, Sandro utilizza, sublima e seleziona gli scarti, le scorie della materia (carta di recupero, stoffe, stracci, vinavil, smalti, ferri saldati) per riaggregare, intessere, plasmare e riseminare figurazioni neoumaniste. E dove insomma l’umano – no, non il postumano, la deriva residuale e dilacerata, esplosa da dentro – fosse ancora bene al centro dell’opera, divinata anzi in una nuova risultanza qualificante. Dal nero, sembrava dirci Visca – perfetto, originale ed emancipato allievo del miglior Burri – rinasce, implode e risorge luce… Dalla lacerazioni combuste del tessuto sociale – e della materia creatrice – miracolano nuovi colori: nuovi perché, come il tempo proustiano, prima perduti e poi tanto più ritrovati. La collaborazione col Cinema spalanca una prospettiva altra, consanguinea e insieme variata: il film di Zurlini da Silone… E soprattutto Un cuore rosso sul Gran Sasso, che Visca realizzò nel 1979-80, al culmine di una stagione di bizzarro, fertile romitaggio estetico nel suo Abruzzo montano, più aspro, ancestrale e apotropaico, petrosamente incarnato come un immenso monumento tettonico, un laico e gigantesco santuario cardiaco, poroso mausoleo di Natura. E pensiamo, mutatis mutandis (qui non incombe la cima del Gran Sasso, ma la sua sororale Maiella), alla splendida descrizione che il D’Annunzio del Trionfo della Morte (1894) intona come per una vetta innalzata dai suoi stessi scoscendimenti, radicata e vegetante per l’atavica forza delle sue stesse tradizioni, di un indicibile furor anthropologicus: La sua terra e la sua gente gli apparivano transfigurate, sollevate fuori del tempo, con un aspetto leggendario e formidabile, grave di cose misteriose ed eterne e senza nome. Una montagna sorgeva dal centro, come un immenso ceppo originale, in forma d’una mammella, ricoperta di nevi perpetue; e bagnava le coste falcate e i promontorii sacri al’olivo un mare mutevole e triste su cui le vele portavano i colori del lutto e della fiamma. Vie larghe come fiumi, verdeggianti d’erbe e sparse di macigni e qua e là segnate d’orme gigantesche, discendevano per le alture conducendo ai piani le migrazioni delle greggi. Riti di religioni morte e obliate vi sopravvivevano; simboli incomprensibili di potenze da tempo decadute vi rimanevano intatti… Come un immenso ceppo originale… Questo fascino della montagna sull’artista ci porta davvero lontano (magari a Roccatagliata Ceccardi, a Jahier, a Dino Campana, a un certo Rèbora, perfino alla povera Antonia Pozzi!): ma anche con Visca non si tratta solamente di un’esperienza, diciamo, naturistica – bensì, di un’ascensione umana, di una lievitante, ossimorica immersione antropologica… “sopra il monte imbattezzato” e la sua falange di immagini – per dirla col grande poeta gallese Dylan Thomas.Ed ogni discesa dalla vetta, celebra in fondo un’ossigenata ripartenza, il tornare, riaddensarsi a valle lungo i fiumi e le strade anche ostili della Realtà. “Nell’opera di Sandro Visca affiorano e si manifestano feticci e tabù e ripristini candidi di coltissimi sortilegi,” – scrive Gino Marotta certo pensando anche a questi grandi tours in giro per mezzo mondo – “di ferocissime appassionate ricognizioni dei territori passionali di un collettivo etnico che va oltre il Gran Sasso, verso il deserto”… E altrove amerà ritrarlo come “il saraceno, incantatore esorcista”, “amaro privilegiato decifratore di arcani e lontani meccanismi del pensiero”… Ecco, uno dei capitoli più interessanti della sua vita – e dunque della sua arte – Visca può ben ascriverlo ai suoi lunghi viaggi nelle Ande, in Perù, lungo il Rio delle Amazzoni… Torna ovviamente in mente una certa luce lirica di Pablo Neruda – non meno dolce che aspra, irredenta e pura – perfettamente riversata non solo nelle celebri poesie, ma ancor più forse in certe sue prose, e diari, dove la fortissima natura sudamericana sembra ergersi, mutarsi in aspro o fantasiosissimo artista, capace di dipingere, scolpire coi suoi colori e con le sue forme, ogni terra, squarcio o golfo o muro d’orizzonte; ecco ad esempio l’irripetibile, introiettato murales de “L’autunno dei rampicanti”: Giallo, fuggitivo, il tempo che decapita le foglie avanza verso l’altro lato della terra, pesante, facendo scricchiolare il fogliame caduto. Ma prima di andarsene, si arrampica su per le pareti, si aggrappa ai crespi viticci e illumina i taciturni rampicanti. Essi attendono tutto l’anno il suo arrivo, perché lui li veste di crespo e di bronzo. È quando l’autunno si allontana che i convolvoli adorno, colmi di gioia, invasi da un’ultima e disperata resurrezione. Tempo pieno di disperazione, tutto corre verso la morte. Allora tu forgi sulle umide muraglie la furia cupa dei rampicanti. Immobili ragni azzurri, cicatrici violette e gialle, medaglie insanguinate, giocattolo dei venti del Nord. Dove il vento formerà ogni ricamo, dove andrà completando il tuo lavoro l’acqua delle nubi. Anche la Natura s’inventa le sue gloriose, supreme tavolozze! Feticci e tabù… Collettivo etnico… Dobbiamo immaginare e rispettare quel Visca più giovane del 1970 e dintorni, felicemente sintonizzato, collegato a questa profonda scelta di vita: ivi comprese, e per fortuna, le annesse e connesse scelte politiche, che poi furono, sono anche e per ciò stesse umane. “In quegli anni,” mi ha detto come sul filo di un antico disagio affettuoso, di un empito perfino incarnato, certo, ma non del tutto condiviso, “le categorie dovevano essere sempre di una proposta alternativa… Preferivo il recupero di certe stratificazioni di esperienze… Un recupero progressista, sia chiaro, non archeologico… Ambivo e indagavo piuttosto il rapporto dell’uomo-interno con l’esterno – le vere necessità introiettate del vivere. Magari, perché no?, prendendo anche ad esempio una cultura di appartenenza; e uscendo fuori dai meccanismi del Mercato, o del Potere della Critica, per salvare me stesso”. Decisivo dunque il rifiuto di darsi pienamente in pasto all’entourage delle gallerie e della critica modaiola – ribadendo invece (anzitutto dentro di sé) ansia di libertà creativa e quiete esistenziale: la scelta dell’insegnamento, presso la Sezione Accademia del Liceo Artistico di Pescara, a partire dal 1969, lo aiuta e lo protegge come in un’oasi operosa. Il rapporto coi giovani, ne prolunga in fondo la giovinezza e gli consente insperate collaborazioni e trasfusioni emotive, nonché espressive. L’incontro nel ’72 con un allievo come Andrea Pazienza – il geniale disegnatore e cartoonist diventato in pochi anni l’emblema di una generazione, e altrettanto in fretta bruciatosi – la dice lunga su certi illuminanti, destinati snodi insieme artistici ed esistenziali (Dall’archivio Pazienza, risulta che Sandro Visca, il professore amato e caricaturato, sceneggiato in decine di vignette, risulta proprio il personaggio “reale” più disegnato da Andrea Pazienza…). Era il periodo in cui finalmente si usciva – assai malconci – dal grande peso, egemonico e in fondo ricattatorio delle ideologie. Il loro provvido e inevitabile tramonto – che è come dire sfaldarsi, corrompersi, implodere – favorì e ingenerò un sottile ma caldissimo bisogno di altri conforti, stilemi, archetipi, traguardi. Moda su moda, venne anche quella della Natura – di un suo eterno ritorno come Alma Mater, arcana e primigenia. Ma per molti fu un bisogno sincero, un urgente leggersi dentro, auscultarsi proprio e soprattutto come Anima Mundi. Sandro Visca fu subito tra questi, e con quale e quanta profondità d’analisi, di esigenze, di fervore e di dinieghi. Dunque il credo naturista epurava e riscattava gli animi, dolenti ancora dello sterile malessere e delle terrorizzanti scaramucce di troppe avanguardie – e molto più dell’inesorabile, terrorizzante guerra nel contesto civile, politico, velenoso e fazioso… Il ’68 aveva in fondo tradito i suoi sogni e bisogni – gli anni ’70 s’incupirono a lutto: anni di piombo, li dissero. E pesarono e uccisero come il piombo. Con le P38 degli “autonomi” e i fumogeni reazionari della polizia, le Brigate Rosse e il rapimento e poi la tetra, delirante esecuzione di Moro: tragico, inutile olocausto per un Sistema che certo rimase ignobilmente lo stesso, semmai accelerando ancora le sue pulsioni e propensioni consumistiche, la dittatura fintodemocratica del Capitale… Pasolini tuonava e ammoniva, ma finì cadavere bastonato, tumefatto e dilaniato in una discarica dell’Idroscalo di Ostia, nell’estrema periferia di Roma che sempre e pure aveva amato, dopo uno dei suoi squallidi, consueti rendez-vous omosessuali. Dai suoi idolatrati Ragazzi di vita gli venne infine la Morte. Ma egli aveva in verità profetato e come filmato, poetato già tutto, in un incubo visionario che perfettamente gli fece intuire, soffrire tutte le nuove emergenze, e gli scenari di un intero pianeta spaventosamente brulicante e agonico, col suo irrefrenabile Terzo Mondo elevato al quadrato, al cubo, esportato a virus endemico, colonizzato a necessario antinferno, purgatorio condannato e funzionale al sistema: Il Quinto Dolore è sapere che miliardi di viventi una dolce mattina, si desteranno, come in ogni mattina della loro vita, nel semplice sole dell’Europa futura, i suoi gelsi, le sue primule, – o in quello profondo dell’India nel puzzo sublime del colera che aleggia su corpicini nudi come spiriti, – o in quello spudorato dell’Africa sempre più moderna sul verde della morte che sarà cornice al furioso dono della vita, – o in questo di Fiumicino, sole di fiume che fa dell’odore del fango una festa di misera immortalità latina… Ognuno sognò, ricercò l’antidoto che più gli si confaceva. Ognuno fuggì da sé verso sé, dentro sé: e fu la volta di una commossa, struggente mitizzazione della Natura. L’Occidente, si sa, viaggia a mode: ecco quella dei libri di Tolkien, di Hermann Hesse e del suo Siddharta, con quest’India evocata e invocata, e un nirvana che nessuna metropoli poteva realmente concedersi – fuori dei meri giochetti letterari, o dei guizzi simbolici… “A nessuno veniva in mente di mettere in discussione la saggezza del Centro Permanente dell’Amore quando affermava che era necessario rifiutare ogni forma di contatto con il resto dell’universo. Attivato… una parola scritta a lettere nere che colava inchiostro rosso…” – delirava quel gran saggio ebbro di Jack Kerouac in uno strano, inaudito e mordente racconto fantascientifico di quegli anni, cityCityCITY – “ATTIVATO, lo vedevi scritto sui muri dei gabinetti superasettici di cityCityCITY, accompagnato da disegni indecenti.” Di spiazzamento in spiazzamento, verso l’altro lato della terra, Sandro Visca continuò invece a fare tranquillamente il suo lavoro, di essere ed auscultarsi ed attivarsi artista, artefice di un sano, innato desiderio espressivo. Lui che la metropoli mai l’aveva scelta e in fondo accettata; né i finti dettami liberaldemocratici del consumismo, o peggio gli alibi rivoltosi e le cupe utopie delle dittature del bene, dei paventati o seducenti socialismi reali… Il suo nuovo periodo dei pieni anni ’70 ammira e incanta, coi suoi lavori sapienti d’ingenuità, incorrotti e fioriti di figurazioni quasi alchemiche, mai vièto décor ma sofferto, ossigenante orizzonte di incantamenti, sospensioni, rarefazioni o intrighi analogici, inesausta iconografia e policromo arazzo dell’anima: o forse, chissà, davvero la mappa intessuta, variata e finalmente decrittata, del Centro Permanente dell’Amore… Ma di questo caro sciamano che cuce parole e stoffe, ci interessa poi anche il rapporto coi moderni classici del ‘900 (e perfino di fine ‘800: pensiamo allo Jugendstil, a Klimt e alla secessione viennese, o ai rapimenti fiabeschi, neomedievalisti, di un William Morris con tutto il suo movimento di “Arts and Crafts”, ma non solo): i secondo-futuristi come Prampolini e Depero, certo; ma soprattutto (oltre al suo Burri) Fontana, Afro, Mirko, Cagli, Munari, e tanti altri potremmo aggiungerne: da tutti gli “astrattisti” italici di Forma 1, sino ai performativi, alla Body Art, alla Land Art (vedi Christo)… Così come c’intrigano le infinite chances di “teatralizzazione” delle immagini e delle installazioni che Visca sempre propone e spalanca, vorremmo dire sciorina en plein air… “È lo spettatore che fa l’opera”, teorizzava, dissacrava Duchamp. Ma ancora con Sandro Visca l’opera sceglie, elegge e ammaestra il suo spettatore – sembra anzi catechizzarlo, dialogarci all’unisono… Come appunto nei suoi teatrini che chiedono alle spettatore di animarli, di dialogarli di sensazioni, pensieri, immagini rifratte e catafratte d’anima. O prima ancora in quella Pupazza che è la vera contro-figlia e principessa in sorriso, in sogno, specchiata e dissimile, ilare e pacificante, del terribile Ubu-Roi assurdo e metafisico, angustiato e satirico, allibito dentro la nostra Storia ridicola e atroce di moderno, che ha aperto e regnato per tutto il ‘900, da Alfred Jarry in poi… Teatrini inquietanti eppure di-vertenti, esorcistici oltre ogni ponderante, “pericolante” leggiadrìa, questi di Visca ideati nel 2002: “Il teatrino dell’amore”, “Il teatrino dei fiori”, “Teatrino orientale”, “Il teatrino del martin pescatore” – e addirittura “Aparago in posa”, “L’istrionismo del guitto”, “Ripostigli segreti”, “Caduta di un personaggio”, “Salvataggio estremo”… “Inquietanti” – ha ragione Antonello Rubini – “perché dietro alla preziosità vibratile, iconica e materica, spesso vi si colgono prepotentemente precarietà e turbamento: crollano nelle composizioni i corpi architettonici, il caos s’impone e quelle così facili deduzioni gioiose perdono un po’ della loro leggerezza, le figure appaiono colte talvolta nell’istante della distruzione. Ma in tutto ciò non vi è comunque drammatizzazione”… Ci torna in mente il James Hillman più leggiadro e concentrico (il celebre psicanalista e studioso junghiano, si sa, feroce critico del razionalismo della cultura occidentale, insiste a identificare la psiche con l’immagine archetipica, sostituendo al concetto di inconscio quello della memoria collettiva), che sempre invoca e rimpiange, in noi, il Puer aeternus che rischiamo di perdere, esiliare altrove: … la figura del Puer aeternus è la visione della nostra natura prima, la nostra primordiale Ombra d’oro, la nostra affinità con la bellezza, la nostra essenza angelica come messaggera del divino, come messaggio divino. (…) Il Puer dunque personifica quella scintilla umida all’interno di qualsiasi complesso o atteggiamento che è l’originario seme dinamico dello spirito. È la vocazione delle cose a raggiungere la propria perfezione, la vocazione delle persone verso il Sé, a essere fedeli a se stesse, a mantenere il contatto con il proprio eidos che è creazione divina. Il Puer offre un contatto diretto con lo spirito. Se si rompe questa connessione diretta, il Puer cade con le ali spezzate. E quando cade noi perdiamo il senso urgente, bruciante del nostro scopo e cominciamo invece la lunga marcia processionale attraverso i palazzi del potere verso il Vecchio Re malato e dal cuore indurito che spesso si traveste ed è indistinguibile da un Vecchio Saggio infermo. Cosmogonia materica, tessitura cromatica, dislocazione formale, architettura emotiva… Quante operazioni s’assommano e concordano, coesistono e addirittura confricano, nelle opere di Visca – in questo suo continuo e caparbio plasmare e forse riplasmarsi, specchiarsi, appassionarsi ma anche astrarre nella, dalla pura materia! Aveva ragione un poeta Sinisgalli, questa volta alle prese coi lavori di un Lucio Fontana: “La sua opera è tutta sotto il segno dell’allegria, un’allegria belluina un po’ raccapricciante. Voleva portare il cielo nelle stanze… Lo vedo fratello nella vocazione antiretorica, antimistica. Bisognava intralciare il passo agli accademici, ai pompieri. I suoi ‘concetti’ sono intralci, ostacoli, barriere. Ebbero un grandissimo effetto deterrente. Fecero paura ai filistei.” Sotto il segno dell’allegria… Portare il cielo nelle stanze… Intralciare il passo… Effetto deterrente… Guarda caso, proprio alla vigilia di uno degli anni più brutti della nostra storia, nel 1976, alla Biennale di Venezia, Sandro opererà da par suo, con la passione e l’estro che mai gli mancano, per la ricostruzione dell’ambiente di Lucio Fontana. Sempre più, con questi adorabili e inquieti teatrini, Visca ci introduce e si immerge in una vera metaforica parata o immota danza delle cose. Se il motto di Marc, di Kandinskij e del “Blaue Reiter”, era nel 1914 di non copiare più il mondo ma di “rendere visibili” le cose, ora le cose diventano protagoniste assolute, emblemi corroboranti, ambasciatori umanoidi; e la cosificazione simbolica, pare l’unico antidoto concettuale, espressivo, contro la disumanizzazione di massa… C’erano tante, troppe cose in giro, in quegli anni di intrigante e intricata emancipazione del moderno dal moderno, dentro e oltre il moderno… Espressionismo astratto, tachisme, informale, action painting, astrazione geometrica, optical art, naturalmente un diluvio di pop-art (i combine paintings di Rauschenberg, i dipinti puntinati e fumettistici di Lichtenstein, Warhol e le sue serigrafie in serie e ossessivamente ripetute di immagini prescelte e iconografie massmediatiche)… Tutto o quasi, insomma, era già stato fatto o tentato: dal manifesto “DADA DADA DADA, urlio di colori increspati, incontro di tutti i contrari e di tutte le contraddizioni”, insomma dal “disgusto dadaista” di Tristan Tzara, alle “sculture portaoggetti” di Giacomo Balla; dagli autoritratti con la biro blu e rossa di Dubuffet, e dalla fascinazione utopica de L’Hourloupe, alle sarcastiche serie dei “Generali”, delle “Modificazioni”, dei “Meccani” e delle “Dame” di Enrico Baj… Né dimentichiamo, più o meno coevi, i “Lirismi alchemici” di Vladimiro Tulli (come tralasciare i suoi “Veleni in rosa e materasso”, o “L’arcobaleno stroncato”?), i deliziosi, scenografici Mozart di Luzzati – e più ancora le allegoriche, gioconde “Fantasie teatrali” di Daniela Remiddi, coi suoi burattini, le maschere, i costumi di immediata e policroma fragranza… Vegliava anche – per non dire incombeva, ed esploderà di lì a poco – anche il successo (meritato e pilotato assieme) della Transavanuardia, i cui campioni, da Chia a Clemente, da Cucchi a De Maria, a Paladino), secondo l’intuizione del loro critico e “profeta” Achille Bonito Oliva, “superando l’ideologia del darwinismo linguistico (…) recuperano le ragioni della manualità, della soggettività e ripristinano le categorie di pittura, scultura e disegno. Nomadismo culturale ed eclettismo stilistico presiedono il lavoro di una rifondazione dell’arte improntata sul principio manieristico della citazione”… Ma questi sono già giochi e giochetti della seconda metà degli anni ’70… Le giovinezze, le generazioni si succedono in fretta, e ciascuna sembra abbia solo fretta di licenziare e sostituire la precedente… E gli anni ’60, no che non erano facilmente archiviabili – né da noi né altrove!… In Italia, a parte le solitarie e celebrate imprese dei grandi numi tutelari (da Burri a Fontana, appunto, da Capogrossi a Rotella, etc.), era cresciuta, specie a Roma, intorno ai caffè di Piazza del Popolo, diciamo fra il 1959 e il ’68, una sfacciatamente giovane, irruenta scuola di pittori un po’ maledetti, un po’ disancorati, e infastiditi da ogni tradizione, anche del moderno, che diedero man forte a una sorta di talentuosa, rapita e vagamente edonista versione nostrana della pop-art: i nomi li sanno tutti, si va, con molteplici sfumature e distinguo, da Schifano a Festa, da Angeli a Ceroli, a Mambor, Kounellis, Tacchi, Pascali… Paola Pitagora, che in quegli anni, da promettente e tormentata attrice di Bellocchio (ma anche nazionalpopolare Lucia Mondella nei Promessi Sposi televisivi), si ritrovò fidanzata e musa di uno di loro, Renato Mambor, racconta molto tempo dopo, nelle pagine diaristiche e romanzate di Fiato d’artista (2001), quei sogni ansiosi, spericolati come una traiettoria delle loro veloci maximoto, e quella scanzonata, bruciante e anarchica bohème in pieno, maldestro boom economico, con accenti lucidi, struggenti: “Ma perché non ti sei messa con un regista o un produttore?” mi sentivo chiedere. Certo sarebbe stato più facile per me, che con quei ‘maestri del dolore’, loro ponevano una visione della realtà che spesso contrastava le mie quotidiane necessità, che erano vitali, di crescita. Ma senza rendermi conto proprio da loro bevevo un nettare preziosissimo, quello della libera, gratuita creatività. “Delle arti, quelle inutili” scrive Brecht. Le loro opere ai miei occhi nascevano realmente da una non necessità, nemmeno quella della Bellezza: non si pronunciava “bello!” davanti a un quadro o una scultura, bisognava piuttosto superare uno spiazzamento, perché era un’altra versione della Bellezza, un diverso linguaggio che sperimentavano. Affascinata miravo quella ruota iridescente e mi sforzavo di comprendere, ma se la parola Avanguardia ha un senso, solo oggi posso amare il loro lavoro. Ecco allora Sandro Visca 1969, sorridente e irridente, capziosamente autoironico con le sue emblematiche pupazze di stoffa, cucite a mano con inopinabile perizia artigianale, e poi giocate, suggeriva Nicola Ciarletta con un “effetto caricaturale e allucinatorio, alla Godard (il regista cinematografico più vicino alle origini del teatro).” Ma è il versante – e il discrimine – dell’umanizzazione degli oggetti (e forse viceversa), quello che consente i funambolismi concettuali, gli interscambi archetipici più interessanti. Ancora Ciarletta: “Visca sa, da moderno, che l’uomo oggi (e per uomo – non serve dirlo – s’intende anche la donna) è ‘reificato’, è diventato cioè mutuabile con gli oggetti che adopera. (Questa mutuabilità dell’uomo con l’oggetto ha avuto il suo primo raffiguratore – mi si perdoni l’insistenza – in Picasso). Ma Visca sa pure che in antico un artista figurativo era considerato un fabbricante di oggetti, e che assai lunga è stata la sua strada per arrivare ad essere considerato – alla pari con i poeti – un imitatore (e cioè, si rifletta, un interprete) dell’azione umana (la quale richiede sviluppo e movimento). È, dunque, sulla base di questo doppio ordine di consapevolezze, che Visca giunge a concepire (ed è chiaro che in lui confluiscono le istanze di varie tendenze che sono in giro: pop, op e via dicendo) la pittura, che è visione (e vorrebbe esserlo di azioni umane), come teatro, che è ed è sempre stata visione (lo denuncia la parola stessa)”… E Benito Sablone – da poeta ironico e dolente, come tutti noi in perenne ansia di nuovi equilibri – parlerà della duplice verità delle sue “pupazze” cucite a mano, le quali in fondo “non vogliono essere prese sul serio e minacciano continuamente di ribellarsi al loro stesso creatore per la forte carica ironica che posseggono: diventano così, anche estremamente serie e drammatiche: ma di rimbalzo, in un secondo tempo, dopo che hanno fatto tabula rasa d’ogni residuo mito estetico.” Ma proprio così, compunto e ilare, strutturato e antimitico, Sandro riusciva a coniugare, a contemperare forse Creatività, Necessità, Libertà e Bellezza… Non parliamo poi delle felici – e contraddittorie, evviva! – implicazioni antropologico-culturali; e soprattutto del cosiddetto “metalinguaggio magico di Visca”, che il sociologo Luigi Fraccacreta individua e premia (correvano già i primi anni ’70, per la precisione un’importante personale a Milano presso la galleria Pace) come viaggio attraverso l’alchimia dell’uomo interno: Dall’opera di Visca appare alla fine un nuovo modello di culto: gli oggetti rappresentati sono contemporaneamente e reciprocamente “interni” ed “esterni”. Nel mondo esposto in queste opere, la testa, il cuore, il sistema neurovegetativo, l’utero, la nuvola, il sottosuolo, il fuoco, gli ori, gli argenti, i rossi, acquistano un valore sintattico complesso che deriva loro dal processo alchemico, cioè dalla trasformazione del Sé profondo del ricercatore-osservatore attraverso la ricerca stessa. E la costante, per l’appunto, è questa rara e amabile qualità di irrisione proba, di eticità festosa, di un serissimo joke, ed egualmente dolce, docile: “Ne viene fuori un orizzonte d’immagini festevole, ludico (e Visca mi parla infatti di recupero di una ‘festività persa’), ove il gioco tuttavia” – annota Enrico Crispolti nell’85 – “non è liberazione altrimenti alienante, ma è evocazione, invenzione, scandaglio di nessi possibili, vitalmente significanti. Il traguardo è l’immaginazione come potenza di costruzione di un mondo più ricco, diverso nella sua densità animistica, ove ogni segno è dunque anche altro da sé, come ogni suo elemento in campo è sì allusione alla figura simbolica deliberata, ma anche carica d’immaginario ulteriore attraverso l’intensità direi di ‘decoro’ espressivo del suo stesso tessuto, sempre sontuosamente condotto, e perciò mai inerte”… Certo è che anche Sandro Visca – già a partire da allora – sempre più si poneva e risaltava come artista “totale”, e questo, più che un evento, splende tutt’oggi come assoluto miracolo. A dirne i pregi, suffragarne il talento, forse l’esercizio critico non basta più, con la sua mera, tarata misurazione di stili e stilemi: occorrerebbe semmai il voto felice e sincronico d’un poeta, il rito di sapienza di una illuminazione felicemente postrimbaudiana; o perfino le cronache munifiche ed efflorescenti del Gabriele d’Annunzio più raro, più sincero – più abruzzese che romano, più nostalgico che progressista, più terrigno che sensuale, più elitario che mondano – più innamorato della stoffa esosa dell’arte, dei suoi serici, cabalistici colori, di ogni implosa tessitura o materiale poietico che rinarra l’ispirazione, la veste, l’arreda, la contempla, la frequenta, la abita, la seduce, la sveste, la penetra col denso amore del Linguaggio, con il corteggio inaudito e quotidiano delle parole, insieme seriose e impertinenti, lucide ed evanescenti, anticate e squisitamente fuori del tempo… … Io so che tutto è una emanazione della sostanza una, infinita ed eterna; e che l’uomo terrestre è l’immagine dell’uomo celeste; e che li universi sono i riflessi dell’Uno. Le driadi sono fuggite, con le oreadi, i tritoni e i silvani; ma per me i silfi ancora sospirano nell’aura; le ondine piangono nelle acque cadenti e si lagnano nella profonda voce del mare; le salamandre si agitano e scintillano nel fuoco; gli gnomi in fondo alle caverne custodiscono tesori che il sole non vide mai. Un viaggio immobile e vorticoso, duttile e coriaceo, plasmabile e petroso, metamorfico e induttivo, presiede a quest’“attitudine gentile e sicura” – chiosa Ruggero Pierantoni – che “da questa plancia di comando così geometrica, uniformemente luminosa e omestamente abitata”, circumnaviga in un arazzo di 34 metri, alto 50 cm, tutto il mondo da visitare – ma insieme tutti i mondi possibili: con una grazia fantastica e una precisione implacata, un’eleganza e una consapevolezza, che davvero ricordano certe indimenticabili parabole di Italo Calvino, i suoi tarocchi o Castelli dei Destini Incrociati, le sue Città Invisibili, i suoi Marco Polo insomma di ieri e di sempre, ma soprattutto di domani. Non è un caso che negli ultimi, densi saggi di conoscenza – e cioè nelle ormai mitiche Lezioni americane, uscite postume nel 1988 –, Calvino additasse proprio la “Leggerezza” come virtù principe per il Nuovo Millennio: e proprio perché, come rileva Fabio Pierangeli in una sua acuta monografia (Italo Calvino. La metamorfosi e l’idea del nulla, 1997), “si oppone vittoriosamente ad una realtà diventata pesante a causa di un lento processo di ‘pietrificazione’ iniziato con il dopoguerra.” La pietrificazione, fuori dalla contingenza storica, pur segnalata da Calvino, rappresenta anche il male: è il passaggio più delicato, il nodo rimasto aggrovigliato ne La giornata di uno scrutatore. Che siamo in un ambito metaletterario, Calvino lo chiarisce immediatamente, ponendo un parallelo tra il mito e il “metodo da seguire scrivendo”, Lasciando che “le immagini della mitologia” compongano un discorso sulla letteratura, si può evitare di essere catturati dallo sguardo pietrificatore. Tuttavia “coi miti non bisogna avere fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria”. Indubiamente attrae Calvino la leggerezza, la nobiltà dei gesti con cui Perseo porta a termine l’uccisione del mostro, troncandone di netto la testa: “Si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole”. Immagini di grazia e delicatezza che preannunciano quel processo metamorfico in cui il primo gradino è la trasformazione del sangue del mostro: “dal sangue di Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso”, cosicché la “pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario”. Davvero qualcosa di molto simile, ed egualmente, inesauribilmente felice, ha sempre fatto il nostro agile, caparbio e forte – perché leggerissimo – Visca, artista metamorfico quant’altri mai, e originale indagatore, onesto e paziente alchimista della sua stessa fantasia… Davvero dalla nerezza al bianco, dalla nigredo fino all’albedo, all’ultimo chiaroveggente traguardo e stadio di ogni opera che con la vita coincide, la rifrange e l’assomma. Ma con un artista totale e del totale come Sandro Visca, poderoso e lievissimo, vorticoso e apparentemente concentrico, assommato e primigenio come un metafisico Primo Motore Immobile, per fortuna anche le armi e gli adusi arnesi della critica d’arte paiono spuntati, diremmo limitativi: forse più giusto e assennato il trasvolante, sempiterno intuito del poeta, la cognizione d’un dolore che tradotto, metabolizzato, torna invece a nutrirci, instaura e radica il meritato contrappasso del sorriso, combatte e rischia per una vera felicità auratica, mentale, e solo dopo appagatamente creativa. In ogni atomo o cellula o atomo o goccia d’acqua c’è in fondo il calco, l’essenza, la scala o rimembranza dell’intero mondo, la formula stessa della vita – giurano i biologi, i fisici e gli scienziati. In ogni quadro o installazione, arazzo o pupazza, teatrino o collage di Visca – solare e lunare assieme, come un’Ombra d’Oro –, langue, si macera o si ridesta, gemma e nasce come da un taglio cesareo la scommessa lieta dell’arte, l’armonia faticosa dell’esistere, la natura cui apparteniamo e che ci reclama, ci battezza e ci forgia uomini, sempre nuovi d’antico, aurore successive, tramontanti ma inestinguibili. In bilico e equilibristi tra i regni a specchio di sole e luna – proprio come divinarono, esplorarono per mera trasparenza di parole le immagini sorprendentemente consanguinee, qui ben sovrapponibili, ma invero solo pensate, di Dylan Thomas, sul ventre materno dell’arte: Perché colui che ora apprende il sole e la luna Del latte di sua madre possa fare ritorno Prima che le labbra avvampino e fioriscano Alla stanza sanguinante della nascita Dietro l’osso di scricciolo Del muro e ammutolisca E il ventre Che generò Per Tutti gli Uomini l’adorata Luce infantile o L’abbagliante prigione Si spalanchi al suo arrivo. In nome di tutti i dissoluti Smarriti sopra il monte imbattezzato Nel centro delle tenebre io lo prego

Roma, marzo 2008
Plinio Perilli

 


Un ribelle. Oggi come ai tempi della scuola. Quando la cifra della sua esistenza gli era parsa già chiara: le regole le avrebbe dettate lui, assumendo su di sé tutti i rischi di una scelta così netta. Sandro Visca è uno che non pratica sfumature, la sua vita e la sua arte rivelano lo stesso tratto deciso, netto. E raccontano una statura alta, in tutti i sensi.  La fisicità imponente, l’intensità della sua storia, il magnetismo delle sue opere. Nella forza dell’impatto, nel messaggio dirompente, nella preziosità della manifatturache intreccia arte e artigianalità. Chiamarli quadri non si può. Forse non lo sono. Le produzioni di Visca sono una denuncia, un grido, uno sberleffo, un affondo a tratti violento, un pugno nello stomaco, provocazione forte, azzardo espressivo. Mai lasciano indifferenti.  Creano turbamento, lasciano il segno ma sempre rischiarate da un elemento di leggerezza, che si traduce in speranza. Un puntino luminoso, una doratura, un filo sospeso, una piuma, seni di donna sono la zattera che promette salvezza a una umanità messa a dura a prova dall’incapacità, sempre umana, di cambiare verso. Nei lavori di Sandro Visca è come se ci fossero più vite: i frammenti di paramenti sacri e pezze appartenute a un altro insieme, rivivono in una storia nuova, e raccontano “altro” dentro un palcoscenico che ne accoglie la rappresentazione. E’ la rivincita dei materiali tessili, che si vestono di regalità per disegnare un mondo fatto a pezzi ma mai condannato con sentenza definitiva. La via di scampo è là, dentro la stessa narrazione. Opere complesse, nella costruzione materiale e di senso, di perfezione assoluta. Tanta potenza espressiva esonda da un animo appassionato, fiero, e, soprattutto, libero. Che non si è mai piegato alle logiche del mercato, del successo e dei circuiti “giusti”. Mai varcata la porta del tempio popolato di mercanti, ha preferito guardarli da lontano, assecondando una naturale distanza con la contaminazione commerciale che col tempo si è rivelata deleteria per l’arte. Più spettacolarizzazione che creatività, più apparenza che sostanza: un’equazione distruttiva per la valenza sociale codificata nel messaggio artistico. Ha scelto, qualche volta pagato, e si è affermato in proprio, inseguendo sempre le sue idee senza timore. La sua forza è stata la capacità di osare, ma anche di creare legami con i territori, con la natura, e con la montagna soprattutto, che sta a Visca come la terra al sole. Più che un’attrazione è un senso di appartenenza quello che lo ha portato negli anni, da aquilano di origine, a vivere il “suo” Gran Sasso come una cosa sacra, pensata e guardata con gli occhi del cuore. Lo stesso che fu protagonista di una pérformance, un film girato nel 1975 e acclamato, molti anni dopo a conclusione di un accurato restauro, come evento speciale della 54^ Biennale di Venezia. “Un cuore rosso sul Gran Sasso” non era una semplice pellicola: quegli uomini in processione, con un gigantesco cuore sulle spalle, rappresentavano il tentativo di tracciare un segno forte dentro un paesaggio amato, per difenderlo da un assalto scellerato che ne stava violando l’integrità e la bellezza. “Asfaltata”, l’espressione che in questo tempo classifica una sconfitta clamorosa, viene perfetta per descrivere in una parola i fatti di allora, quando una colata di bitume diede un colpo mortale alla montagna e all’idea di bene comune.  La costruzione di una inutile strada a Campo Imperatore fu una lacerazione, un’offesa alla natura vissuta da Visca come un fallimento collettivo, un oltraggio consumato sotto gli occhi socchiusi di tutti. Troppo grave lo scempio, e la rabbia trovò espressioni di giuste proporzioni con quel cuore rosso, grande e pesante quanto il danno subito dalla montagna, portato su in cima con la forza di gambe e braccia decise a condividere quel senso di ribellione che Sandro Visca esprimeva con linguaggio e strumenti da artista. Era l’espressione di una coscienza ambientalista allo stato embrionale, sconosciuta ai più, ma già intuita e identificata come impegno urgente da assumere. Anzi, si configurava già come una battaglia, e quella fu la prima trincea, scavata da Visca per difendere la montagna, tra le sue cose più care, che non si è mai stancato di esplorare. Memorabile, e forte sotto il profilo emotivo e artistico, fu il viaggio in Sud America (1978): affascinato dalla Cordigliera delle Ande, sedotto dal Perù, cercava in quei luoghi l’essenzialità del vivere e di valori non negoziabili, come la sacralità del patrimonio naturale dell’Amazzonia peruviana. Assiduo viaggiatore, estraneo alla formula all inclusive e ai pacchetti dei tour operator, Sandro Visca ha sempre cercato in paesi lontani motivi di interesse professionale e crescita umana. E lo ha fatto intrecciando legami, sempre, con le persone e con i luoghi dove ha scelto di vivere per lunghi periodi, risorsa preziosa in tempi regolati dalle connessioni in rete, effimere, false, e terribilmente vuote. Le relazioni umane, invece, sono impegnative, e non alla portata di tutti. Proprio come le opere di Visca, che interpellano coscienze attente di anime vive, capaci di cogliere e accogliere la scossa che si propaga dalle sue opere. Un richiamo, il suo, a riappropriarsi del giudizio critico, a non soggiacere all’ignoranza, all’ignavia. Il teatro dell’esistenza regala uno spettacolo a tratti rivoltante, ma non guardare non è la soluzione. Ci vuole coraggio, e a lui non è mancato mai. A piedi giunti sempre, Sandro Visca, quando c’era da scardinare uno schema vecchio e arrugginito, quando era ora di innovare, quando c’era da dichiarare guerra a un mondo che l’arte non la sapeva/voleva onorare. Quando bisognava ristabilire il senso più vero, e l’unico possibile, dell’essere artisti. A mani giunte mai.

Lanciano, settembre 2018
Licia Caprara